L'appello
Roncalli, Togliatti e Francesco: ripartiamo dall’articolo 3 (il più ‘eversivo’) della Costituzione
La guerra “a pezzi”, di cui ha parlato papa Francesco, è in corso da tempo, e il rischio che si trasformi in qualcosa di molto più spaventoso è quanto mai reale.
Editoriali - di Paolo Franchi
1) Monsignor Vincenzo Paglia ha sollevato su questo giornale questioni di grande momento, che vanno ben oltre il tema ricorrente delle forme possibili dell’impegno dei cattolici in politica a trent’anni e passa dal venir meno della Democrazia cristiana, e che non riguardano soltanto i credenti. O almeno: io, che credente non sono, leggo il suo scritto soprattutto come un appello alla mobilitazione politica, nel senso più alto della parola, delle donne e degli uomini di buona volontà, chiamati a far fronte, in nome della pace, della giustizia e della dignità umana a una logica, quella della guerra, dell’ingiustizia e della sopraffazione sistematica dei deboli, che mette in discussione la sopravvivenza stessa del genere umano.
2) Le mie domande, o meglio le mie sommesse proposte di un supplemento di riflessione su alcune delle questioni sollevate, prendono le mosse da qui. Ricorda, monsignor Paglia, che “in Italia, nel secondo dopoguerra, uomini e donne di di cultura e di fedi diverse – anche in serio conflitto tra loro – riuscirono a scrivere la Costituzione … che ancora oggi è un faro”. E aggiunge che “quel testo nasceva dal comune desiderio di ricostruire un Paese distrutto dalla guerra”. Nulla da eccepire, ci mancherebbe. Ma la Costituzione è anche qualcosa di più. Non so se sia “la più bella del mondo”.
Di sicuro, è la più avanzata tra quelle varate all’indomani del secondo conflitto mondiale. Senza voler togliere nulla, ma proprio nulla, al contributo fondamentale di altre correnti politiche e culturali, credo che a renderla tale abbia concorso in modo determinante il fittissimo (e rispettosissimo) dialogo che prese corpo, alla Costituente, tra i cattolici e le sinistre. Queste ultime si divisero, come è noto, sull’articolo sette (e io mi sono risolto a pensare che avesse ragione Togliatti, e torto il mio amatissimo Nenni). Ma si ritrovarono unite, tra loro e con i democristiani, nel mettere a punto l’articolo più “eversivo” della Carta, il terzo, elaborato soprattutto da Lelio Basso. Che recita: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, sociale ed economica del Paese”.
Non si tratta, in tutta evidenza, di un compromesso al ribasso, ma di una sintesi efficacissima tra due culture politiche assai diverse, certo, che convergono però su un’affermazione obiettivamente “rivoluzionaria”, e la mettono solennemente in Costituzione: la democrazia non sarà mai davvero compiuta finché ci saranno diseguaglianze. Personalmente nutro grandissima considerazione per il principio e ancora più per la pratica della solidarietà, nelle sue più diverse declinazioni. Ma fatico a condivere, anzi, non condivido affatto, l’idea che la solidarietà – tramontato ingloriosamente il comunismo novecentesco, dannate a una crisi all’apparenza almeno ineluttabile le altrettanto novecentesche sociademocrazie – possa rappresentare una sorta di succedaneo della lotta per l’eguaglianza. Che continuo a ritenere la bussola imprescindibile per qualsiasi partito, o movimento, o moltitudine (fate voi) che ambisca non a mitigare, in nome di un qualche conservatorismo compassionevole, le ingiustizie più vistose delle nostre società, ma a rovesciare – democraticamente, pacificamente – il segno dell’intollerabile stato di cose presente.
Mi fa piacere, molto piacere, che la giudice della Corte suprema degli Stati Uniti Sonya Sotomayor, a commento della sentenza con cui la Corte ha abrogato le affirmative action, abbia affermato che “non esiste aspirazione all’eguaglianza se non si riconosce la diseguaglianza”. Mi farebbe ancora più piacere essere certo che la pensino allo stesso modo tutti i soggetti, credenti e non, a vario titolo interessati all’appello di cui si discute sulle colonne dell’ Unità.
3) Monsignor Paglia, a sostegno delle sue argomentazioni, ricorda che cinquant’anni fa, di questi giorni, iniziava il pontificato di Paolo VI, il cui primo atto significativo fu la promulgazione della Gaudium et spes, approvata (2111 voti favorevoli su 2373) dal Concilio Vaticano II: non un’enciclica, ma una “costituzione pastorale”, rivolta quindi all’umanità intera, e non soltanto ai credenti. Ero, a quei tempi, un ragazzetto, ma ricordo bene l’eco suscitato da un suo passaggio, questo: “La Chiesa, pur respingendo in maniera assoluta l’ateismo, tuttavia riconosce sinceramente che tutti gli uomini, credenti e non credenti, devono contribuire alla costruzione di un mondo entro il quale si trovano a vivere insieme: ciò sicuramente non può avvenire senza un leale e prudente dialogo”.
Si trattava davvero di parole nuove, impensabili fino a pochi anni prima, la cui portata, almeno potenzialmente, andava anche oltre la distinzione tra “l’errore” e “l’errante”, introdotta da papa Roncalli con la Pacem in terris. Gli “atei” di Montini, così come gli “erranti” di Roncalli, non erano, ovviamente, soltanto i marxisti, peraltro già immuni da un pezzo, almeno sul versante comunista, dal vecchio anticlericalismo. Però così, come la minaccia di un incontro tra Cristo e l’Anticristo, il “leale e prudente dialogo” di cui sopra venne rappresentato, dalla destra estrema e dagli ultra clericali, ma pure da un’Italia (presunta) liberale che scese in campo, forse memore del terzo articolo della nostra Costituzione, contro la minaccia incombente della “Repubblica Conciliare” con la stessa foga con cui avrebbe contrastato, di lì a una decina d’anni, il compromesso storico, che pure era ben altra cosa.
I comunisti, invece, dialogarono, eccome, e si capisce, al vertice come alla base: per quel pochissimo che mi riguarda, ho perso il conto dei gesuiti con cui discussi da ragazzo, seriamente, appassionatamente. C’era un precedente, e un precedente molto importante. Il 20 marzo 1963, Togliatti aveva sottratto del tempo a una intensissima campagna elettorale per recarsi nella cattolicissima Bergamo, la città di Giovanni XXIII, e pronunciare un discorso dedicato nientemeno che al “destino dell’uomo”. Mancavano pochi giorni alla promulgazione della Pacem in terris, si disse (e più tardi Alessandro Natta confermò) che al segretario del Pci ne era stata fatta pervenire, tramite monsignor De Luca, l’anticipazione, comunque siano andate le cose non c’è dubbio che tra l’ultimo Togliatti (intellettualmente e politicamente molto più inquieto di quanto voglia la vulgata) e papa Roncalli che, parola di Togliatti, chiudeva per la Chiesa “l’età di Costantino”, ci fosse una certa qual sintonia, e forse qualcosa di più.
Al teatro Duse di Bergamo (nel pubblico c’era anche un giovanissimo Savino Pezzotta, futuro segretario generale della Cisl) Togliatti non si limitò a ribadire che “l’aspirazione a una società socialista non solo può farsi strada in uomini che hanno una fede religiosa, ma può trovare uno stimolo nella coscienza religiosa stessa”, Per la prima volta nella storia, l’umanità poteva decidere di “suicidarsi”, annientandosi nella guerra nucleare. E questo, oltre a mutare radicalmente il rapporto tra la politica e la guerra, ridefiniva in profondità il concetto stesso di politica: nazioni, classi sociali, religioni, partiti erano chiamati a commisurarsi con un paradigma nuovo, “la coscienza della comune natura umana”. Per i comunisti, ciò comportava per cominciare l’abbandono definitivo della “concezione ingenua ed errata”, figlia dell’Illuminismo e del materialismo ottocentesco, secondo la quale “l’estensione delle conoscenze e il mutamento delle strutture sociali” avrebbero estirpato la questione religiosa: alla prova della storia, “le radici sono più profonde, le trasformazioni si compiono in modo diverso, la realtà è più complessa”.
E da qui, concludeva, “ricaviamo la necessità della reciproca, profonda comprensione”, e anche la possibilità di una collaborazione. Di lì a pochi mesi si votava, e con quel discorso il totus politicus Togliatti volle anche significare che un cattolico poteva serenamente votare comunista. Ma ridurne a questo il significato e la portata sarebbe a dir poco ingiusto, e ingeneroso. Altra cosa, invece, è chiedersi se le parole di Bergamo abbiano ancora una loro attualità.
4) Centrale, centralissima, era in quel discorso la questione della pace e della guerra. Eppure, nel mondo del 1963, il vento della distensione sembrava spirare molto più forte di quello di un possibile sterminio nucleare e la stessa guerra fredda, superata, l’anno precedente, la drammatica crisi di Cuba, pareva in via di archiviazione.
Se Togliatti si rivolgeva in quei termini, oltre che ai suoi, al Papa e ai credenti, lo faceva nella speranza non solo di rafforzare questi cambiamenti, ma di imprimere loro un segno nuovo, politico e culturale, “il destino dell’uomo”, appunto, più ricco e più saldo di un equilibrio mondiale fondato pur sempre, in ultima analisi, sul terrore. Le cose sono andate in tutt’altra direzione, i vecchi blocchi politici, ideologici e militari non ci sono più, ma i trent’anni e poco più susseguenti alla caduta dell’Unione Sovietica tutto hanno portato fuorché la pace, la prosperità e la giustizia: la guerra “a pezzi”, di cui ha parlato papa Francesco, è in corso da tempo, e il rischio che si trasformi in qualcosa di molto più spaventoso è quanto mai reale.
Alle classi, ai partiti, ai popoli sono subentrate delle folle solitarie, alle persone gli individui. Si può prenderne atto, chiudersi nel proprio particulare, riconoscere sommessamente che a una politica ridotta a caricatura di se stessa, e a leader politici che sembrano caratteristi del cinema italiano d’antan, si può chiedere al massimo di fare il minor numero di danni possibile. Oppure si può rimettersi in cammino, tenacemente, testardamente, rielaborando il passato non per perdercisi dentro, ma per cercare dei lumi per un presente e un futuro densi di incognite. Per chi, credente o no, voglia mettersi su questa strada, il politicissimo messaggio di Francesco è imprescindibile. Proprio come lo fu, per Togliatti, quello di Roncalli.