La proposta di legge

A cosa serve il salario minimo: combattere il lavoro povero che il governo ignora

Il 20% della forza lavoro è oggi sprovvista di garanzie. Sacrosanta quindi la proposta di legge del Pd e delle altre forze di opposizione. Ma da sola non basta: occorre una riforma della contrattazione e un taglio strutturale del cuneo fiscale

Editoriali - di Cesare Damiano - 6 Luglio 2023

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A cosa serve il salario minimo: combattere il lavoro povero che il governo ignora

Da quando i partiti di opposizione, ad eccezione di Italia Viva, hanno depositato unitariamente una proposta di legge sul salario minimo, il tema è diventato centrale nel dibattito sociale e politico. Questo, già di per sé, è un buon risultato, perché porta alla ribalta il tema del lavoro povero, rimasto in ombra anche a seguito delle recenti rilevazioni dell’Istat sulla crescita occupazionale, propagandata dal governo nei suoi soli aspetti quantitativi.

Ciascuno, ovviamente, tira l’acqua al suo mulino. Come è noto, l’Italia è un Paese conosciuto per la sua contrattazione collettiva che, secondo le rilevazioni dell’International Labour Organization (Ilo), sta al di sopra di una copertura dell’80 per cento dei lavoratori, che fin qui ha giustificato la mancata adozione del salario minimo. Insieme all’Italia altri Paesi come l’Austria, il Belgio, la Danimarca, la Finlandia, la Francia, la Spagna e la Svezia stanno al di sopra di tale soglia di copertura. Tuttavia, per quanto riguarda il nostro Paese, va rilevato che non solo una minoranza di lavoratori non è tutelata dalla contrattazione (manca all’appello il 20% della forza lavoro), ma che non sempre la copertura contrattuale ha la qualità necessaria.

Tant’è che, anche di recente, la magistratura ha rilevato come alcuni contratti siglati dalle maggiori confederazioni, come quello della vigilanza privata, siano al di sotto di una soglia retributiva riconducibile ai criteri dell’articolo 36 della Costituzione, che fa riferimento all’equa retribuzione. Del resto, l’Italia è uno dei pochi Paesi che, dagli anni 90 a oggi, ha visto diminuire il potere d’acquisto delle sue retribuzioni del 2,9 per cento, a fronte di un aumento, nello stesso periodo, del 33 per cento del potere d’acquisto di stipendi e salari tedeschi e di quasi il 30 per cento di quelli francesi. Quindi, a nostro avviso, avere un salario minimo per legge serve ed è utile per combattere un fenomeno che esiste, quello dei working poor ma, da sola, questa misura non può risolvere il problema della qualità della contrattazione, che rimane l’asse centrale della tutela della condizione di lavoro sotto il profilo retributivo ma anche normativo.

Infatti, la direttiva europea sul salario minimo si muove in due direzioni: la prima vuole stimolare la contrattazione di qualità e soprattutto la sua estensione. La seconda si propone di combattere con il salario minimo le retribuzioni non dignitose. Noi crediamo che il punto dal quale partire sia quello del miglioramento della contrattazione. Tant’è che siamo favorevoli a una legge che recepisca le tabelle salariali dei contratti cosiddetti leader o maggiormente rappresentativi, categoria per categoria, al fine di conferire agli stessi un valore erga omnes per quanto concerne il trattamento economico complessivo (Tec) e non soltanto il trattamento economico minimo (Tem). Sarebbe paradossale che un contratto sopra soglia, e ne esistono molti, fosse riportato per legge a un livello più basso.

Di pari passo, sarebbe opportuno invece intervenire sui contratti più deboli che si annidano soprattutto nel settore dei servizi, del commercio e del turismo. Andando più nello specifico, sappiamo che sotto la soglia dei 7 euro lordi orari, cioè al fondo della scala delle retribuzioni, abbiamo gli operai agricoli, i florovivaisti, la vigilanza privata e i lavoratori domestici non conviventi. Tutte categorie che andrebbero riportare gradualmente a un livello salariale adeguato, anche con appositi incentivi. Non è un caso che la proposta di legge di Pd, Movimento 5 Stelle, Azione, Sinistra e +Europa preveda all’articolo 7: “La legge di Bilancio per il 2024 definisce un beneficio in favore dei datori di lavoro, per un periodo di tempo definito e in misura progressivamente decrescente, proporzionale agli incrementi retributivi corrisposti al prestatore di lavoro al fine di adeguare il trattamento economico minimo orario all’importo di nove euro ai sensi dell’articolo 2, comma 1, ultimo periodo”.

Dell’aumento, dunque, si deve fare carico la fiscalità generale in quanto gli stessi proponenti comprendono che l’adeguamento salariale di chi sta sotto la soglia dei 9 euro, se non sostenuto da incentivi, correrebbe il rischio di mettere fuori gioco il sistema contrattuale. La clausola è importante e, sicuramente, dovrà prevedere un innalzamento graduale dei salari e un loro sostegno fiscale di non breve periodo. Si tratta di comprenderne gli effetti finanziari. Facciamo l’esempio di un salario di 7 euro lordi: per salire di 2 punti, fino a 9, occorre prevedere un amento lordo di 2 euro orari che, moltiplicato per 173 ore mensili (rappresentano il divisore prevalente nei contratti nazionali) equivale a un aumento di 346 euro lordi al mese.

Un aiuto potrebbe arrivare dall’abbattimento del cuneo fiscale: se la manovra del governo, che ha il difetto di essere una “una tantum” che vale solo per cinque mesi, da luglio a novembre di quest’anno, diventasse strutturale, il traguardo dei 9 euro sarebbe più vicino. Infatti, i 7 punti di diminuzione del cuneo fiscale previsti per le retribuzioni lorde annue fino a 25mila euro, corrisponde a circa 98 euro netti mensili. Al lordo la cifra, da sola, vale circa 1 punto a vantaggio delle retribuzioni più basse.

In Europa, per quanto riguarda il salario minimo, andiamo da poco più di 2 euro orari della Bulgaria ai 13 del Lussemburgo. Quindi, abbiamo chiaramente livelli diversificati e costruiti sulla situazione di ciascun mercato del lavoro. In Italia, i 9 euro, intendendo per minimo paga base e contingenza, sono già una realtà per quanto riguarda la prevalenza dei contratti stipulati, dai metalmeccanici ai chimici, dai bancari agli assicuratori. Ma al di sotto di quella soglia esiste, in varia misura, tutta un’area relativa ai settori dei servizi: penso al commercio o all’alberghiero, che con il salario minimo sarebbero maggiormente tutelati. Crediamo quindi che, in primo luogo, occorra agire sui meccanismi contrattuali per evitare sia un loro logoramento, sia che l’adozione del salario minimo rappresenti una via di fuga per le imprese dalla contrattazione, che è complessa. Il salario minimo, insomma, è un punto di partenza, ma quello di arrivo deve essere la stabilizzazione e l’irrobustimento del sistema contrattuale.

Perché la contrattazione non sempre è efficace? I motivi sono molteplici. Il Protocollo Ciampi del 1993 aveva disciplinato efficacemente il sistema di contrattazione, suddiviso tra contrattato nazionale e contrattazione decentrata, a sua volta suddivisa tra aziendale e territoriale. Inoltre, prevedeva precise scansioni temporali per l’avvio del rinnovo dei contratti nazionali: la presentazione della piattaforma tre mesi prima della scadenza e, fino al suo mese successivo le parti assumevano l’impegno a non intraprendere azioni unilaterali: nel caso del sindacato non si dichiaravano scioperi. Tutto questo è scomparso.

Oggi abbiamo contratti di durata triennale o quadriennale che non si rinnovano da sei, sette anni, e anche oltre. L’indennità di vacanza contrattuale, sostitutiva dell’aumento contrattuale, che doveva essere da stimolo al rinnovo, essendo troppo bassa è diventata, all’opposto un freno. Un comodo rifugio per le imprese alle quali non conviene sottoscrivere nuovi accordi più onerosi. La contrattazione decentrata è relegata a un universo limitato di imprese medio-grandi. Idem per quanto riguarda il welfare aziendale, ancora sconosciuto ai più. L’Ipca, l’Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato a livello europeo, che viene adottato per legare i salari all’andamento dell’inflazione, esclude dal suo paniere quei beni energetici che sono stati il fattore fondamentale dell’aumento dei prezzi.

Non a caso, categorie avvedute come quella dei metalmeccanici, hanno inserito nell’ultimo rinnovo contrattuale una clausola di allineamento all’inflazione reale delle rate annuali di aumento calcolate inizialmente sul 2%. Risultato: l’ultimo aumento ricalcolato passa da 27 a 123 euro mensili. Tutti questi fattori, appena descritti, portano a un oggettivo indebolimento del sistema contrattuale. Da qui bisogna ripartire, ripristinando e aggiornando le vecchie regole della contrattazione, perché la difesa della condizione dei lavoratori non può passare dalla sola fissazione di un salario minimo per legge.

Inoltre, le retribuzioni, nei contratti, non sono statiche: hanno un andamento dinamico. Il livello minimo di inquadramento, in molti casi, non ha la presenza di lavoratori: esiste solo sulla carta; in altri casi sono previste clausole di passaggio automatico alla categoria superiore: negli alimentaristi scatta dopo appena sei mesi; ad eccezione dei chimici, tutti i contratti hanno scatti biennali di anzianità; le normative prevedono tutele in caso di malattia, infortunio e maternità; viene accantonato il Trattamento di Fine Rapporto; è prevista l’adesione ai fondi sanitari e previdenziali; c’è la tredicesima, in alcune situazioni la quattordicesima e il welfare aziendale; esistono le maggiorazioni per turni e festivi, e via elencando. Questo è il Trattamento Economico Complessivo che va difeso con le unghie e con i denti.

In conclusione: pensiamo che occorra difendere e irrobustire la contrattazione, fissare un salario minimo per legge settore per settore e intervenire su quei comparti che sono sotto soglia innalzandoli con incentivi. Ma soprattutto vanno coinvolte le parti sociali costituendo un osservatorio che sia in grado di monitorare non solo i contratti che sono al di sotto di uno standard accettabile, ma per estendere la contrattazione a chi non ce l’ha (si pensi ai lavoratori delle piattaforme digitali e degli algoritmi, in forte espansione) e ad aggiornare periodicamente le tabelle del salario minimo medesimo.

C’è più lavoro e più fragilità. Credo che non possiamo, da una parte, diminuire il cuneo fiscale di altri quattro punti, e condivido questa scelta, ma solo per cinque mesi, e dall’altra parte rendere più facile l’accesso ai voucher e ai contratti a termine proprio nei settori sottopagati. Non possiamo non vedere l’aumento della insicurezza nel mondo del lavoro e nella società in generale e, al tempo stesso, diminuire la protezione per i poveri. Mi pare che, da parte del governo ci sia, nelle scelte, un andamento contraddittorio che non affronta il nodo di fondo: avere un sistema contrattuale forte per far sì che la competitività delle imprese si basi sulla qualità del lavoro e del salario.

6 Luglio 2023

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