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Intervista a Massimo Cacciari: “La rivolta delle banlieue è resistenza alla crisi dello stato sociale”

Intervista a Massimo Cacciari: “La rivolta delle banlieue è resistenza alla crisi dello stato sociale”

La rivolta delle banlieue parla all’Europa. Ed è allarme rosso. L’Unità ne discute con Massimo Cacciari. “Mi meraviglio che succedano solo in Francia – rimarca l’ex sindaco di Venezia, tra i più autorevoli filosofi e pensatori politici italiani -. Ma primo o dopo scoppierà qualcosa anche in Italia”. E sulla guerra:Gli interessi internazionali dell’Europa sono una variabile dipendente, non un valore conosciuto. Mi pare una cosa fuori dalla grazia di dio, ma sembra andar bene a tutti. Bisognerà sconfiggere il barbaro, distruggere il nemico. Bisognerà vincere. Ma poi cosa significa “vincere”? Conquistare Mosca? Come voleva fare Napoleone e dopo di lui Hitler. Non ho idea di cosa significhi vittoria. Fatto sta che per il momento gli sconfitti sono gli europei, ucraini compresi”.

Come leggere la rivolta delle banlieue?
È il sintomo evidente di una straordinaria difficoltà, che da anni è palese, nel mantenere uno standard adeguato di servizi sociali, con livelli di reddito dei cedi medi che stanno cadendo. Una crisi evidente dello Stato sociale. Sono movimenti completamente diversi rispetto a quelli ’68-’70. Lì erano movimenti che denotavano una crescita. Movimenti che nascevano da un salto generazionale e culturale. Movimenti che tendevano a rendere più avanzata e dinamica la nostra democrazia.

Ed oggi?
Sono movimenti di resistenza. Movimenti che tendono a resistere su diritti acquisiti. Diritti che riguardavano tutti i temi del welfare. Quindi potenzialmente anche più cattivi. I classici movimenti che possono dar vita a reazioni di destra se non vengono adeguatamente affrontati. È una crisi generale europea.

In che senso, professor Cacciari?
L’Europa del dopoguerra nasce su di una idea di democrazia progressiva, dinamica. Di democrazia che deve corrispondere in modo sempre più avanzato a una crescita di diritti, a cui devono certamente corrispondere anche doveri. Nella nostra Costituzione è chiarissimo: diritti e doveri. Doveri di solidarietà, certamente, ma che hanno come presupposto una crescita di disponibilità economiche. Tutto questo è l’idea fondamentale su cui nascono le democrazie del secondo dopoguerra in tutto l’occidente. Sono trent’anni che questo meccanismo si è inceppato, è in crisi. L’Europa non è in grado di affrontarlo, il nostro paese meno che meno. Io mi meraviglio che succedano solo in Francia. Ma primo o dopo scoppierà qualcosa anche in Italia. In Italia probabilmente il fenomeno è più coperto anche per l’oceano di reddito nascosto che c’è in questo paese, l’evasione fiscale, il lavoro nero, che in altri paesi non c’è. In altri paesi il nervo è più scoperto che da noi. Tutto qua.

Quanto pesa la questione dell’inclusione?
Pesa anche quello. In Francia da tempo, ma anche da noi la società diventa sempre più multietnica, altrimenti scompariremmo. Crescono gli immigrati, i problemi d’inclusione, d’integrazione. Ma da noi soprattutto problemi colossali che si stanno aggravando quotidianamente. Basterebbe pensare alla questione nord-sud. Non so se ce ne rendiamo conto. I divari continuano a crescere. Non c’è solo il problema dell’inclusione che hanno in Francia. Da noi questi nuovi problemi di inclusione sociale si assommano a quelli tradizionali totalmente irrisolti e anzi in condizioni ancora peggiori, come il mezzogiorno. Noi abbiamo ancora la questione meridionale che sta lì totalmente irrisolta.

In Italia le polemiche sembrano concentrarsi su salario minimo sì salario minimo no…
Anche quello è un problema che va affrontato. Nel senso che non possiamo assistere ad una crescita di diseguaglianze, ad una crisi dello Stato sociale, a un crollo di reddito di ceto medio, a un crollo di qualità di servizi, basta pensare alla sanità in che stato versa, e così la scuola. Non possiamo pensare di disattendere tutti i principi fondamentali su cui la nostra democrazia è bene o male andata avanti per quaranta-cinquant’anni e continuare ad assistere a questa crisi verticale. Da qualche parte bisognerà cominciare a mettere mano. Mettere mano alla questione dei redditi, dei servizi. Il principio di stabilità è necessario ma il problema politico è come combinare questo principio con quelli di solidarietà e di sussidiarietà che reggono l’ideale di democrazia progressiva. Un discorso che investe non solo l’Italia ma l’Europa nel suo insieme.

Perché di fronte a queste enormi questioni sociali, l’attenzione della sinistra, e in essa della sua forza più rappresentativa, il Pd, sia sempre legata, o comunque fortemente concentrata, sui diritti civili?
Perché ormai da tempo sono diventati un Partito d’Azione 2.0. Con tutto il rispetto per il Partito d’Azione, manca ogni radicamento nelle masse popolari, manca ogni radicamento sociale, territoriale. È tutto evaporato. Tutto quello che costituiva l’architettura fondamentale dei partiti di sinistra di massa in Europa si è volatilizzato. Per ricostruirlo ci vorrà altro che la Schlein. Non è un fatto personale. Non è cambiando leader che si possono risolvere problemi radicati negli anni. E chissà se sia possibile ormai. È che all’interno della sinistra ha vinto su tutta la linea una strategia e una cultura non “neo” ma iper liberista, quella delle privatizzazioni. E poi la condizione sociale è completamente mutata. L’organizzazione sociale, la composizione sociale è completamente mutata. La massa ormai è formata da un ceto medio impoverito. Impoverito e incattivito.

E su questo può essere vincente la ricetta della destra?
Sì. Certamente più di quella della sinistra, come i fatti dimostrano. Gli elementi populistici, gli elementi demagogici sono più connaturati a quel segno politico. La destra, come sta avvenendo in tutta Europa, riesce non dico a dirigere o a governare ma di certo a galleggiare in queste situazioni infinitamente meglio di una sinistra che, diciamolo pure, non esiste più. l’insoddisfazione dei cittadini europei nei confronti delle istituzioni europee e dei governi internazionali è dovuta dal fatto che non si comprende più come questa grande costruzione, frutto di una grande politica, possa rispondere alle esigenze e alle domande dei cittadini. La mediazione europea è riuscita ad esserci fino agli anni Ottanta, ma a partire dagli anni Novanta, in modo sempre più avvilente, non è più riuscita a fare quello per cui era nata, ed è mancata anche chiarezza nell’obbiettivo, come è mancata la volontà politica. Non possiamo essere così ciechi da non vedere che negli ultimi vent’anni importanti pezzi di quello che era lo Stato sociale sono stati smantellati: non credo che possano esserci veli o ipocrisie che ci impediscono di vedere la situazione. Il colpo di grazia probabilmente avverrà con le elezioni europee del prossimo anno. Se la sinistra tradizionale europea di stampo socialdemocratico, aveva ancora un luogo dove esercitava un potere, quel luogo era l’Europa. Era all’interno delle autorità europee. Lì aveva ancora un ruolo di governo. Dove altro l’ha mantenuto ormai? Macron, che pure è messo male, con la sinistra ha poco o nulla a che spartire. In Grecia è successo quel che è successo, in Italia pure. In Germania il compromesso tra le grandi forze tradizionali – Spd-Cdu – pare avere le ore contate. E in Europa pure. Perché la prossima volta, nel 2024, in Europa non ci sarà più la possibilità numerica di formare una grande coalizione socialdemocratici- popolari-democrisiani.

Tutto questo avviene in un continente in guerra.
Una guerra incredibile, in cui l’Europa sembra che abbia dimenticato completamente quali siano i propri interessi nazionali-europei. È talmente evidente che gli interessi europei sarebbero quelli di giungere a un cessate-il-fuoco, a trattative, a far cessare in tutti i modi questa guerra. È talmente palese che i nostri interessi sono questi e nient’altro che questi. Ma non c’è nessuna iniziativa europea, nessuna, che vada in questa direzione. Non so come sia possibile che dei governi non abbiano come propria bussola gli interessi nazionali. O temono di essere invasi da Hitler? Oggi in Europa manca una leadership che faccia gli interessi dell’Europa. Questo è palese. Gli interessi internazionali dell’Europa sono una variabile dipendente, non un valore conosciuto. Mi pare una cosa fuori dalla grazia di dio, ma sembra andar bene a tutti. Bisognerà sconfiggere il barbaro, distruggere il nemico. Bisognerà vincere. Ma poi cosa significa “vincere”? Conquistare Mosca? Come voleva fare Napoleone e dopo di lui Hitler. Non ho idea di cosa significhi vittoria. Fatto sta che per il momento gli sconfitti sono gli europei, ucraini compresi. L’interesse europeo, economico, politico, culturale è che la guerra finisca, che la Federazione russa mantenga la sua stabilità, che i rapporti economico-culturali con essa possano riprendere. Interesse nazionale è che i fondi per l’aumento delle spese militari possano essere utilizzati per sostenere le strutture già in crisi del nostro Stato sociale. Stiamo assistendo a un vergognoso aumento di queste spese in tutto il mondo, a un vero e proprio riarmo tedesco, mentre crollano gli investimenti in scuola, sanità, servizi. Anche questo è palesemente contrario a spirito e lettera della Costituzione.

Per tornare alla crisi sistemica del Welfare e dello Stato sociale. Perché nel campo intellettuale non c’è stata più una ricerca e una riflessione sui lavori?
È una impressione derivante dal fatto che tutti i lavori che si producono su questo piano non vengono minimamente pubblicizzati, né da radio né da televisioni. Ho fatto decine di conferenze, ho partecipato a decine di convegni, ci sono decine di libri che escono, decine di appelli, l’ultimo qualche giorno fa con Carlo Rovelli e altri, ma nessuno ne parla. C’è questa regola generale del silenzio. Certamente meglio così che in dittatura che quando parlavi ti mettevano in galera, qui puoi dire quello che vuoi ma nessuno lo riprende e finisce lì. Ma non è affatto vero che non ci siano articoli, che non ci siano saggi, libri. Per tornare alla guerra. Il generale Mini ha scritto un libro bellissimo sull’Ucraina ma chi ne ha parlato? Ci sono intellettuali che parlano, studiosi che riflettono ed esternano, da noi, negli Stati Uniti, ma cadono nel silenzio. Non fanno audience.