La Francia brucia, le banlieue, e non solo, sono in agitazione. Quasi settemila ragazzini fermati. Cosa sta accadendo nel Paese dei principi democratici e, se volete rivoluzionari, scolpiti sulla pietra: liberté, égalité, fraternité. Principi che non sono solo patrimonio della costruzione della Nazione francese, ma della stragrande parte delle democrazie europee. Eppure, la Francia brucia.
Immancabilmente, i commentatori nostrani si sono subito affrettati a mettere all’indice la storia immigratoria (pessimo termine, ma rende bene l’idea) dell’unico Paese europeo che per quasi due secoli restò “aperto” all’altro. Lo restò anche durante il periodo più buio della recente storia europea, tra le due guerre mondiali. Per comprendere i fatti che stanno incendiando la Francia, occorre rileggere il suo passato, nel quale forse riusciamo a capire le cause profonde di un malessere che non può semplicemente esser etichettato come un mero incidente della storia. La storia non è solo un fluire di avvenimenti, di accelerazioni e brusche involuzioni, è soprattutto fatta dalla sovrapposizione e dall’intersecarsi di momenti di cesura e fasi, che contraddistinguono la storia delle nazioni e dei processi di umana convivenza o scontro.
Per quanto riguarda la Francia e in generale la storia europea, la Rivoluzione del 1789 rappresenta indubbiamente il punto nodale dal quale far partire questa riflessione. I fatti del luglio del 1789 generarono le prime ondate di migrazioni di massa che non si basavano più esclusivamente su fattori religiosi. I migranti cercarono protezione in diversi Paesi europei, modellando una geografia di città ospitanti e stabilendo così luoghi che offrivano l’asilo della libertà. Allo stesso tempo, nel 1793, la Costituzione montagnarda della Prima Repubblica incoraggiava la Francia a «dare asilo agli stranieri che sono stati banditi dalla loro patria per la causa della libertà» (art. 120). Per la prima volta in Europa, il diritto d’asilo fu ufficialmente concesso ai rifugiati stranieri perseguitati per motivi politici o religiosi. Si stabilì un diritto duraturo, ma anche la responsabilità di proteggere, come la conosciamo oggi.
Tra il Medioevo e il XVIII secolo, il dovere di proteggere era inteso solo come un diritto temporaneo di immunità per i criminali che cercavano protezione in un luogo secolare. Le numerose migrazioni religiose iniziate con la Riforma francese nel XVI secolo portarono a una ridefinizione del termine asilo, che venne esteso agli individui perseguitati per la loro fede. Verso la fine del XVII secolo le migrazioni temporanee erano viste come sinonimo di un potenziale umano impressionante. L’esercito francese, bisognoso di soldati, commissionò la prima indagine ufficiale sulle migrazioni legate alla manodopera. Condotta tra il 1807 e il 1812, l’indagine rivelò la forza lavoro potenziale nell’Impero napoleonico.
Questo documento rappresenta una delle fonti più significative in grado di fornire informazioni dettagliate sui movimenti migratori dei lavoratori del periodo. Allo stesso tempo, rivela un paradosso della storia economica: le guerre di conquista e la congiuntura economica negativa che ne seguì chiusero molti sbocchi ai migranti. Due secoli prima della costruzione delle ferrovie, l’intero continente era, quindi, già attraversato da lavoratori migranti, il che dimostra che la sedentarietà non era così comune come spesso si crede e che il flusso delle persone era superiore a quello delle merci.
La Rivoluzione francese, però, determinò anche un altro processo, già in atto da tempo in Europa, quello della costruzione dello Stato Nazione. Questo avvenne, nella sua forma moderna, nel lungo Ottocento, complice la Rivoluzione industriale che corrispose con l’età degli imperi. Detto in altri termini, in concomitanza con l’imperialismo europeo, che cambiò il paradigma interpretativo della mobilità umana. Fino a quel momento, l’immigrazione era considerata una risorsa volta a supplire l’inverno demografico del tempo, figlio delle guerre e soprattutto delle pandemie (la scienza dell’igiene e la medicina non erano quelle che conosciamo oggi).
La Francia fu il Paese che più di ogni altro intervenne su questa necessità. Come sottolineato, il paradigma cambia con l’avvento dell’imperialismo europeo, ovvero con la colonizzazione, da parte europea, di porzioni crescenti di altro mondo. La spartizione dell’Africa, e non solo, vide la Francia protagonista, alla pari del Regno Unito, nella ridefinizione del globo e delle migrazioni. Quella che per secoli era vista come una piaga da contrastare divenne improvvisamente uno degli strumenti più utilizzati per lo sviluppo del capitalismo moderno, nonché un processo attraverso cui si giustificavano gli sforzi di natura militare ed economica oltremare. Tuttavia, l’aspetto economico da solo, o la mobilità forzata, di popolamento, di colonizzazione da sole non erano sufficienti. Serviva una narrazione che giustificasse lo sforzo.
La premessa necessaria era quella di negare, intanto, il ruolo dell’immigrazione nella costruzione nazionale. Serviva elaborare il mito dell’omogeneità della Nazione. L’ortodossia nazionalista che funse da base ideologica all’imperialismo è stata messa solo recentemente in discussione da alcuni storici europei. Ovviamente, questa visione resse solo dove possibile, nella Vecchia Europa. Negli Stati Uniti, come in Australia, per stare al mondo anglosassone, è sempre stata molto meno evidente, se non impossibile. L’origine degli stereotipi, ancora oggi diretti verso i migranti, spesso trova la sua matrice nella percezione e nel conseguente trattamento che all’epoca fu riservato alle popolazioni indigene.
Il sistema si resse e giustificò se stesso attraverso l’utilizzo spregiudicato, sproporzionato e violento del concetto di razza. Quest’ultimo era penetrato nelle convinzioni dei contemporanei, alla pari, se non in maniera maggiore, del concetto di progresso, idealizzato come conseguenza diretta delle azioni realizzate dalle razze più evolute. O, in altre parole, razze superiori, tanto che addirittura durante le grandi esposizioni internazionali si potevano trovare sia gli europei che celebravano la loro supremazia tecnologica che, nei padiglioni coloniali, le razze inferiori. Come ovvio, il razzismo crebbe dandosi una giustificazione intellettuale e soprattutto morale. Alla pari di un’ideologia, il razzismo pseudoscientifico, suffragato dagli studi nei campi della biologia, della genetica e soprattutto dell’antropologia, venne usato quale pretesto per fornire alle popolazioni africane – in quanto meno evolute – il grado di Civilisation che non erano in grado di raggiungere autonomamente.
Il XIX secolo, tra le tante cose, fu il secolo delle scienze biologiche, in una dimensione del tutto nuova: il mutamento nel tempo. Le teorie evoluzioniste caratterizzarono profondamente il pensiero dell’Ottocento. Quando Darwin pubblicò la sua Origine della specie, i concetti di competizione, lotta per la sopravvivenza ed evoluzione attraverso l’adattamento erano ormai familiari al pubblico colto. In più, da questi si sviluppò il darwinismo sociale che, integrando le leggi del mercato, giustificò l’aggressività degli attori in campo, in quanto volta al raggiungimento del progresso.
Ancora, oltre il tempo anche lo spazio fu pervaso da un nuovo principio pseudoscientifico. Infatti, si diffuse la convinzione che la qualità della cultura potesse atrofizzarsi senza l’espansione territoriale. Dopo il 1870, quando il ricordo della sconfitta militare ad opera dei tedeschi e la preoccupazione per il calo del tasso di natalità resero familiare il tema del decadimento culturale nelle agitazioni in favore di una politica di espansione coloniale aggressiva, i francesi furono i più strenui sostenitori di questo approccio. Il concetto fu così semplificato in Notre épopée coloniale da Pierre Legender nel 1901: «Ogni popolo che si rinchiude […] dietro il riparo delle sue montagne e il letto dei suoi fiumi senza preoccuparsi di una propria parziale diffusione al di fuori […] è un popolo maturo per la tomba».
Nella sostanza, al processo evoluzionistico – stravolto intellettualmente, come certamente non era nei propositi di Darwin – venne assegnato un valore culturale destinato a far emergere il concetto della supremazia coloniale europea e che, al tempo stesso, la giustificasse. Verso la fine dell’Ottocento, il razzismo era divenuto un fattore più che preponderante nel pensiero e soprattutto nel modus operandi dell’imperialismo. I risultati del processo di industrializzazione diedero agli europei del XIX secolo la consapevolezza di avere raggiunto una solidità che i loro antenati non avevano mai avuto.
In più, il valore della metodica inventiva, che in seguito fu attribuita a questo processo, portò grossa parte dei protagonisti dell’epoca a credere in una naturale superiorità culturale degli europei, i quali erano portati per natura – e quindi giustificati dal processo evolutivo, nel tempo e nello spazio – ad assumere su loro stessi la responsabilità del miglioramento delle razze inferiori. Insomma, per dirla con le parole di Rudyard Kipling, pronti ad assumersi il fardello dell’uomo bianco.
Le ideologie prevalenti dell’epoca – nazionalismo, capitalismo e razzismo – introiettarono fortemente le argomentazioni in favore dell’imperialismo. Il collegamento tra queste impostazioni risiedeva nel fatto che alla base di ognuna di esse ci fosse l’attenzione per lo sviluppo e il progresso dell’economia nazionale dei singoli Stati europei. Da questo punto di vista, l’imperialismo, da un lato, servì come giustificazione a posteriori per i territori già conquistati o, più volgarmente, quale campagna pubblicitaria per vendere le proprietà immobiliari nelle colonie; ma fondamentalmente in esso risiedeva il desiderio profondo dei Paesi di espandere e esportare a tutti i costi il loro nazionalismo.
Se la rivalità tra le potenze e gli interessi economici erano componenti tradizionali dell’imperialismo, nell’Europa dell’Ottocento e del primo Novecento, la migrazione fu il terzo elemento. Ed è proprio in questo terzo elemento, di questa lunga premessa, che troviamo la radice dei conflitti che oggi infiammano la Francia. L’immigrazione non è arrivata per lassismo nel Paese transalpino. I migranti prima, i pieds-noirs poi sono stati il frutto di consapevole strategia coloniale che a lungo andare si è riversata contro la sua stessa creatrice, la Francia. Unico Paese continentale ad aver adottato una sorta di ius soli, deve constatare il fallimento del suo modello assimilazionista.
D’altronde, se vuoi plasmare le persone diverse da te alla tua costruzione identitaria, prima o poi, la storia te ne chiede il conto. Di converso, Paesi con un passato coloniale alla pari dei francesi hanno adottato modelli diversi basati sul riconoscimento e la non ghettizzazione dei “nuovi cittadini” e alla lunga hanno avuto ragione. Infine, manca un ultimo elemento a questa analisi, quello del concetto di razza. Attenzione, anche in questi giorni si fa un gran parlare di neonazionalismo, è del tutto sbagliato e fuori luogo.
Le ronde che nelle ultime ore sono comparse nelle strade delle città francesi non rivendicano l’idea di Nazione, bensì, il suprematismo di una pseudo razza, quella bianca. D’altronde, negli anni Venti del secolo scorso, furono proprio le politiche dell’allora III Repubblica francese a determinare una scelta entica: facilitare ed incentivare ai fini demografici i matrimoni misti, limitando quelli con i nuovi francesi provenienti dalle allora colonie, prediligendo gli immigrati italiani più affini etnicamente. Il resto è storia recente.
In conclusione, perché è opportuno, questo non solo per la Francia, rileggere l’età imperiale? Perché con essa si assistette alla nascita di gran parte di quanto ancora caratterizza l’odierna società urbana della cultura di massa, dagli spettacoli sportivi ai giornali, passando attraverso il cinema. Anche tecnicamente i mass media odierni non sono fondamentalmente innovazioni, ma sviluppi che hanno reso più universalmente accessibili due innovazioni introdotte durante l’era imperiale: la riproduzione meccanica del suono e la fotografia in movimento.
Come controcanto, un’altra corrente di pensiero ritiene che l’imperialismo abbia fallito tutti i compiti che si era assegnato. Probabilmente, entrambe le posizioni si basano su solide interpretazioni del periodo che fu uno dei più contraddittori e pieno di paradossi che la storia ricordi e che, ancora oggi, incide sulle visioni delle nostre società che pur sembrando tanto distanti da allora, ne sono ancora fortemente impregnate.