L'ultimo leader della Dc
Chi era Arnaldo Forlani, l’ultimo leader della Democrazia cristiana
Politicamente era, in tempi in cui questa parola aveva ancora un senso, un moderato: non un uomo di destra, e nemmeno un conservatore, piuttosto un realista
Politica - di Paolo Franchi
Arnaldo Forlani non era una mammola. Era un democristiano di altri tempi. Un politico mite quanto coriaceo, della cui parola gli interlocutori potevano fidarsi. Si fidò di lui (infinitamente più di quanto si fidasse di Giulio Andreotti) Bettino Craxi. Ma pure Enrico Berlinguer ne riconobbe più volte la correttezza.
Personalmente era un pigro, poco incline a dare battaglia in campo aperto. Politicamente era, in tempi in cui questa parola aveva ancora un senso, un moderato: non un uomo di destra, e nemmeno un conservatore, piuttosto un realista, magari anche, se preferite, un iperrealista. Ne dette ampia prova all’indomani del terremoto (non solo elettorale) del 1992, quando la sua Dc scese per la prima volta sotto la soglia del 30 per cento, i socialisti, già entrati nel tritacarne di Mani Pulite, restarono al palo (ma persero una valanga di voti nella Milano di Craxi), il neonato Pds si attestò su un tristissimo diciassette per cento e i leghisti entrarono in massa in Parlamento.
Quel che restava della vecchia maggioranza lo candidò, sfidando le sue ritrosie, al Quirinale. Fallì alla prima votazione, fallì alla seconda, fallì alla terza, vittima del fuoco per nulla amico degli andreottiani e di un manipolo di grandi elettori socialisti. Conosceva troppo bene i suoi polli per pensare che alla quarta votazione, o alla quinta, le cose sarebbero andate meglio e, anche a difesa della propria dignità politica e personale, si ritirò. Se ce l’avesse fatta, la nostra storia avrebbe preso, con ogni probabilità, tutt’altra piega. Ma forse neanche lui aveva piena contezza della valanga che si era già messa in movimento e stava per travolgere un sistema politico – il suo – già corroso in profondità.
Capì qualcosa di più, o forse tutto, nel dicembre dell’anno successivo, quando fu interrogato da Antonio Di Pietro, come tutti o quasi i leader dei partiti di governo, nonché Giorgio La Malfa e Umberto Bossi, al processo Enimont.
A rivederla oggi su Youtube, la sua deposizione è impressionante, specie se la si raffronta con quella, spavalda, di Craxi. I tg e i giornali dell’epoca misero in grande risalto il grumo di saliva che si era formato sulle sue labbra, e resisteva a ogni tentativo di rimuoverlo con un fazzoletto di lino bianco: un po’ come era capitato alle vittime del Grande Terrore staliniano, che ascoltavano “con la bava alla bocca” le accuse del Grande Accusatore staliniano Andrei Viscinski. Ma Di Pietro non era Viscinski, non accusava Forlani, false prove alla mano, di aver tramato contro la Repubblica, la Costituzione, la democrazia. Voleva molto più semplicemente affermare il principio che un uomo politico con la sua storia e con il suo ruolo “non poteva non sapere” dei finanziamenti illeciti ai partiti in generale e della maxi tangente Enimont in particolare.
Solo che, a parte un paio di incontri di Forlani con Gardini e Sama, ricordati dallo stesso ex segretario della Dc, non aveva nulla di concreto da contestargli. E quanto più incalzava, restando però sempre sulle generali, tanto più Forlani si intestardiva a ripetere il medesimo concetto: no, lui delle tangenti aveva appreso, come tutti, leggendo i giornali, e in ogni caso di queste cose non si era mai occupato, anche perché, almeno nel suo partito, il ruolo del segretario politico era assolutamente distinto da quello del segretario amministrativo. Se quest’ultimo, Severino Citaristi, ricordava qualcosa di diverso, non sapeva che farci. E restava comunque in attesa di contestazioni concrete, che però, almeno in quell’udienza, non arrivavano.
Era, la sua, una linea esattamente opposta a quella adottata da Bettino, che aveva detto di essere a conoscenza del lato oscuro della politica fin da quando portava i pantaloni alla zuava. Si rivelarono entrambe perdenti, e in quel contesto non poteva essere altrimenti. Ma a Craxi per una volta – l’ultima – si riconobbero i caratteri del lottatore politico, che prova sino alla fine, anche quando è evidente che la battaglia è persa in partenza, a rovesciare il tavolo. A Forlani, neanche questo. Avendo scelto, a costo di far la parte dell’allocco, di comportarsi in tribunale secondo quelle che pensava fossero ancora le regole del gioco, fu il giudizio pressoché universale, si era mostrato per quello che era, un vigliacco, un coniglio non più mannaro, oltretutto con l’aggravante del grumo di saliva alla bocca.
Per dirla in una parola: un democristiano. Se posso dare un consiglio a chi mi legge, soprattutto ai più giovani, che all’epoca non c’erano, o erano bimbetti, suggerirei di guardarla, quella deposizione. Non rimpiangerebbero il bel tempo andato, quel sistema politico era ormai un termitaio. Ma forse capirebbero qualcosa di più di quella stagione, e della devastazione della politica (altro che “rivoluzione italiana”!) che quella stagione ha inaugurato. Prima di tutto nel senso comune della grande maggioranza italiana o, se preferite, in quella che un po’ pomposamente si definisce “l’opinione pubblica”.