Il ritratto della premier
Chi è veramente Giorgia Meloni, la donna a una dimensione
A un vero leader non basta un solo linguaggio. Ne servono tanti. E non basta un solo modo di comunicare e di pensare e di agire. Ne servono tanti, diversi e complessi. Alla Meloni manca completamente la complessità. Maneggia solo il linguaggio del populismo. E cambia solo il vestito...
Editoriali - di Michele Prospero
Solo pochi mesi fa ne aveva decantato “grinta, carattere, tenacia, indipendenza di giudizio, ironia, naturale simpatia, temperamento e intuito”, ora invece sul “Corriere della sera” un amareggiato Galli della Loggia segnala che “questa voce capace di parlare alto e di guardare lontano ancora non si è udita”. Si riferisce, ovviamente, a Giorgia Meloni. E però, se esiste un solo segno tangibile dell’azione politica del presidente del Consiglio, questo è rappresentato proprio dal “timbro nuovo” dei suoi squillanti gorgheggi. Gramsci non aveva dubbi in proposito: “Ogni movimento politico crea un suo linguaggio, cioè partecipa allo sviluppo generale di una determinata lingua, introducendo termini nuovi”.
Certo, nella file di Fratelli d’Italia, alle prese con il pensatore sardo per edificare la nuova egemonia culturale, si sono fatti un po’ prendere la mano. E così, se anche il conduttore tv Giambruno si lanciava in diretta nel recupero involontario di un arcaismo – “sparimento” – che tanto sarà piaciuto al ministro Sangiuliano, la condottiera Giorgia non poteva certo rimanere inerte. Allora, per attingere l’autarchia linguistica, ha dato in pasto a Montecitorio un originale “li abbiamo abbraccettati tutti”, con l’obiettivo di irridere il Pd per le sue presunte contiguità con i caudillos sudamericani.
Ci sono molti politici, da Trump in giù, che fingono la parte dell’estraneo ai riti del Palazzo. Attraverso un linguaggio spesso maleducato, sfidano le élites ufficiali in nome della identificazione con i gusti della gente comune. I capi populisti si esprimono, secondo un calcolo e un artificio, però, nei sottocodici coloriti che gli esperti di comunicazione costruiscono per loro volendo riecheggiare ipotetici scambi da saloon o bettola. Costoro in fondo giocano, interpretano un ruolo nel teatro della politica, scelgono di parlare come il popolino, ma “non sono” la periferia, gli esclusi. Meloni, invece, con le sue metafore, nella ricorrente perdita del controllo accompagnata da svariate cadute di stile, non recita affatto, è “underdog” per davvero. Da capo del governo, esibisce una ambigua schiettezza che affonda diritta e senza infingimenti contro l’avversario. Su un palco catanese arringa come la prediletta “pesciarola” e stigmatizza la tassazione quale “pizzo di Stato”.
Che dia spettacolo in una piazza dell’Andalusia sotto i simboli di Vox o legga una dichiarazione in Parlamento, il registro di Giorgia rimane identico. Il suo problema non è certo quello di maneggiare il gergo del piccolo esercente di provincia o del borgataro di città, ma di possedere solo quel particolare codice simbolico e non saperne adottare altri più complessi. Anche quando sul Mes insegue quello che definisce “un approccio a pacchetto”, a trionfare è sempre la scorciatoia della semplificazione.
La viandante Giorgia, per mostrarsi degna di “rappresentare una Nazione”, sostituisce di continuo solo il vestiario. Dagli anfibi, sfoggiati davanti ai combattenti post-franchisti di Marbella, sa velocemente passare al più rassicurante tailleur griffato in occasione degli incontri ufficiali. Cambia l’abito, ma mai muta la “monaca” che, di bianco vestita, lancia persino una sfida cromatica al pontefice, a cui fa anche pat-pat sul braccio, oppure, sprofondando su un divanetto, cerca inutilmente di addomesticare i suoi sodali conservatori d’Ungheria e Polonia, i quali però, terminati i baciamani e i convenevoli, le rispondono picche.
Non tanto gli occhi dello spettatore, ma le orecchie, sono l’organo di senso che la comunicazione di Meloni sollecita di più. Come una Tony Dallara dell’oratoria politica, urla aumentando a dismisura le vibrazioni delle corde vocali. E questo suo non già sembrare o apparire una “sfavorita”, ma esserlo realmente, condanna la leader ad agire secondo un formato unico, privandola della capacità, essenziale per un capo, di ricorrere in pubblico alle più diverse maschere comunicative. Lo stesso piglio aggressivo svelato in un angolo sperduto della penisola contro dei giovani contestatori (“siete figli di papà, ad agosto stavate sulla barca di vostro padre e ora che è settembre siete tornati”) rimbomba ora nell’Aula che un tempo volevano sorda e grigia (“dire «vabbè, fumati una canna» non sarà mai la mia politica”).
Giorgia è una politica ad una sola dimensione, quella della comiziante. Che si scaldi in una conferenza stampa in Calabria dopo una strage di migranti (“se qualcuno dice che c’è stata la volontà delle istituzioni di girarsi dall’altra parte, questo è grave per la Nazione che rappresento”) o si inalberi in Parlamento contro chi espone un cartello di dissenso (“sì sì, grazie grazie, abbiamo visto i risultati del lavoro che avete fatto in questi anni”), il carattere della rappresentazione rimane sempre lo stesso. Cesare Pavese (Il mestiere di vivere, Einaudi, p. 334) spiegava che “un discorso di comizio ha la natura del rito religioso. Si ascolta per sentire ciò che già si pensava, per esaltarsi nella comune fede e confessione”. Più che una potenza persuasiva, il comizio sprigiona una forza confermativa e rafforzativa (di credenze già possedute). Per questo chi parla dal palco segue ripetitivamente formule, parole d’ordine, slogan. In piazza l’uditorio è composto da tanti Galeazzo (Bignami) con l’uniforme di partito, invece in Parlamento chi segue possiede di norma una levatura superiore, ma soprattutto è la solennità del contesto ad imporre argomentazioni più articolate.
La parola tormentone della Meloni è “Nazione”, che infilata in ogni passaggio. Il suo sogno è “una Nazione solida, credibile, affidabile, forte, non isolata”. In nome di essa, il capo del governo non si propone come un leader di parte, ma come il Tutto. Chi osa differenziarsi dal suo credo è un nemico dell’intero. L’opposizione è una malattia che non coglie come proprio grazie alla guida della fiamma tricolore aumenti ogni giorno “il peso della nostra Nazione”. Si tratta, per lo più, di irresponsabili che propugnano un disfattista “diritto inalienabile alla migrazione”, ignorando che “la difesa dei confini esterni è l’aspetto fondamentale”, oppure ammiccano al “rivale sistemico” cinese. Meloni non tollera alcuno spirito di dissenso, né la presenza di organismi tecnici come la Corte dei conti. Se la prende perciò anche con “la semplicistica ricetta della Bce”, ossia con “una cura più dannosa della malattia”. Chi è al potere rappresenta la totalità, e quindi si identifica con la Patria, qualcosa di cui “andare tutti fieri, non solo il Governo, ma l’intero parlamento e la Nazione”. È consequenziale, per chi interpreta in tal guisa la funzione di governo, usare l’aula parlamentare per fare solo comizi di propaganda.
Estranei le risultano i riti, le forme del potere. La raccomandazione di Aristotele di adattare la strategia retorica all’uditorio, al luogo e all’occasione, Meloni la lascia cadere del tutto inascoltata. Ovunque, quali che siano il destinatario e l’istituzione che la ospita, comunica con gli stessi artifici, per mezzo dei quali il pathos surriscaldato inghiotte ogni traccia di logos. Dove le parole di stizza non bastano, arrivano in soccorso gli occhi sgranati a puntellare l’aggressione verbale verso l’interlocutore, rappresentato caricaturalmente come un agente al servizio di oscure trame (Maduro, Soros o la grande finanza internazionale), oppure come un meschino calcolatore politico (“so cosa vuol dire stare al 3% e cercare visibilità”).
Ci sono discorsi politici che, una volta trascritti, resistono alla prova della lettura senza perdere di efficacia. Quelli di Meloni sono invece recitati con i decibel che salgono incontrollati e, nel succedersi caotico delle parole, respingono la verifica della trascrizione, oltre a mostrarsi privi di senso compiuto (“forse lei dovrebbe guardare a questi ragazzi che sono in questa sala e avere rispetto di quello che la vostra propaganda ha fatto sulla pelle di queste persone, di queste famiglie”). La voce che si diffonde è tutto, il pensiero quasi niente. Alla Camera le è capitato di perdere i foglietti svolazzanti dove erano appuntati dettagli tecnici ed economici – cioè materie che non possiede –, e tutt’a un tratto la premier è caduta in preda al panico. Questo smarrimento dinanzi all’imprevisto dipende da una carenza sui fondamenti, non solo da un mero deficit di tecnica retorica.
David Hume (La regola del gusto, Laterza, p. 121) ha insistito sul fatto che l’oratore preparato, se nel corso del dibattito “capita qualcosa di nuovo, deve rimediarvi con la sua capacità inventiva, e la differenza fra le sue composizioni elaborate e quelle estemporanee non deve apparire troppo”. Questa attitudine a creare una risposta con prontezza e a ribattere con sagacia non è molto sviluppata nella leader della destra. Qualsiasi interruzione diventa per lei un oltraggio (“lo stanno facendo apposta, mi sono stufata”). In piazza, ad ogni cenno di dissenso che si leva, Meloni denuncia una “grave e continua turbativa di manifestazioni”. In Parlamento, il suo disappunto verso una inattesa obiezione la spinge alla ricerca della semplificazione (“scusami, tutti ci sentiamo scolari della storia, sai”, afferma rivolgendosi con il “tu” ad un deputato dell’opposizione) o dell’invettiva che scalda un clima tendente al rissoso (“onorevole Boldrini, le lezioni da quelli che andavano a braccetto con tutte le dittature comuniste del mondo di oggi non le accetto”).
Le fa difetto quell’attitudine, preziosa in politica, di “sorprendere ingannando”, che per Aristotele è il contrassegno dell’ironia che spiazza l’interlocutore. Capace solo di toni strillati ed esasperati, denuncia le proposte altrui come un imbroglio (“dire che ci sono droghe che possono essere usate è un inganno”). Evita il confronto come la peste, e non raccoglie mai una provocazione con un pizzico di arguzia o una scelta lessicale sapida (“con buona pace dei gufi che preconizzavano catastrofi di ogni sorta”). Scongiurando ogni segno di leggerezza, sa solo rimbrottare, tuonando con il suo accento di chiara matrice romano-periferica: “dovete accettare che c’è un altro governo eletto dagli italiani”.
All’interno delle istituzioni parla nelle forme aggressive di una comunicazione urlata, con amplificazioni e sceneggiate sub specie theatri. Ogni gesto dell’opposizione nasconde a suo dire un delitto di lesa maestà: “lei, onorevole Magi, dovrebbe sapere che io non sono una persona che si fa intimidire”, scandisce con tono minaccioso. Nella sua inclinazione alla teatralizzazione, Meloni fa un ricorso eccessivo alla tecnica retorica dell’amplificatio, cosicché ogni sillaba che pronuncia suona come ultimativa (“è l’esegesi della vigliaccheria, dovete dirci se siete d’accordo”; “stanno cercando di rovinarci”). Talvolta lo scivolamento verso gli stilemi della farsa consente alla premier persino di cimentarsi nella imitazione, quando si diletta a fare il verso a chi muove delle critiche al governo (“l’Italia è isolata, ragazzi, l’Italia è isolatissima, è una tragedia”, dice scimmiottando un tipico tono di voce paternalistico).
Così facendo, però, sfida un fondamentale monito di Cicerone (De oratore, Milano, p. 477): “l’oratore deve evitare di abbassarsi al livello dei mimi e degli imitatori, deve scrupolosamente schivare la comicità grossolana”. Il limite di Meloni risiede proprio in una comunicazione monocorde che le impedisce di adattare il registro linguistico. Non è per calcolo che si getta in un crescendo vocale, con le palpebre spalancate e il collo rigonfio. Si esprime in tal modo, nelle aule del potere o in piazza non fa differenza, perché solo così è in grado di fare. Quando interviene in pubblico è incapace di sembrare altro da quello che in effetti è, e questa sua rigidità la condanna ad esercitarsi in un unico repertorio. Priva di fioretto, predilige il tono perentorio di chi si identifica come la donna della provvidenza: “sono fiera di essere arrivata alla guida di questa Nazione quando era lanciata a folle velocità verso la cancellazione dei confini nazionali”. Per una democrazia liberale, non è un bell’ascoltare.