La partita del Pnrr
Governo e magistrati fingono di litigare su giustizia ma in realtà puntano al tesoro del Pnrr
Quella col Cav è stata una guerra convenzionale, la guerra appena iniziata con il governo Meloni è ibrida. Non c’entra la riforma Nordio, il tema è la valanga di soldi da spendere in fretta e senza tanti controlli. E le procure preparano le reti a strascico
Giustizia - di Alberto Cisterna
Se quella tra Berlusconi e alcune Procure è stata una guerra convenzionale durata circa trenta anni, quella appena inaugurata con e dall’esecutivo Meloni si profila, a ogni effetto, come una guerra ibrida o asimmetrica. Il Cavaliere ha fronteggiato in prima persona e sulla propria pelle l’effetto delle iniziative giudiziarie che lo hanno riguardato in mezza Italia; la premier in carica non è direttamente chiamata in causa in alcun processo, ma le pallottole iniziano a sibilare vicino alla sua cerchia più stretta e questo crea allarme e preoccupazione.
Il 1914 deve essere stato un anno terribile per i giovani di tutta Europa, la trincea, le migliaia di vittime, il sangue, le mutilazioni; nel 1918, dopo 5 anni di guerra, l’obbrobrio e le oscenità dei corpi mutilati erano stati metabolizzati, assorbiti, normalizzati per sopravvivere in quello scempio. Lo ha spiegato per tutti Erich Maria Remarque (Niente di nuovo sul fronte occidentale), ora dovrà capirlo la classe dirigente che ha vinto le elezioni e guida il paese. Il confronto con la magistratura sarà prolungato, duro, fatto di colpi bassi e di inevitabili imbarazzanti inciampi per la cittadella del potere. Reazioni scomposte e minacce preventive non servono ad altro che a far cogliere una certa preoccupazione che, lungi dallo scoraggiare l’avversario, come in ogni guerra, tende piuttosto a renderlo più determinato e temerario.
La questione delle riforme per la giustizia è solo uno spauracchio; la via per rendere nobile – da una parte come dall’altra – la battaglia che si profila all’orizzonte tra contendenti di impari forza e di diversa abilità. Il punto vero dello scontro che si sta per cominciare riguarda piuttosto altro e di più grande rilievo per i contendenti. Ci sono in ballo una valanga di soldi, quelli del Pnrr, da spendere rapidamente e senza tanti controlli, spazzolati con una certa fretta dalla cabina di regia politica del paese, e giustamente le procure della Repubblica preparano le reti a strascico delle indagini per beccare mariuoli e corrotti. In Italia funziona così. La notizia di reato può essere ricercata direttamente dal pubblico ministero che non deve attendere l’attività di polizia. È il fulcro del potere inquirente e la fonte di legittimazione di quel “controllo di legalità” che nessuna norma costituzionale invero assegna alla magistratura, ma che la corporazione ormai individua tra le proprie stimmate irrinunciabili, censisce tra i cromosomi identificativi del proprio patrimonio genetico.
Intercettazioni, microspie, pedinamenti, trojan, forse agenti undercover attendono e attenderanno solo di cogliere le inevitabili malefatte e i grossolani errori di un ceto politico inesperto, fragile, in qualche componente opaco. È la guerra asimmetrica a cui i vincitori delle elezioni – dopo decenni di opposizione e di prolungata assenza dalle stanze da cui si muovono le leve del potere – dovranno attrezzarsi in questa legislatura, perché in quella rete a strascico incapperanno pesci piccoli e squali, piovre e remore. Berlusconi ci ha messo un paio di decenni per capirlo, i suoi eredi hanno forse a disposizione un anno o poco meno per modulare una strategia di contenimento.
Dopo di ché inizieranno le fughe di notizie, gli spezzoni di conversazioni, le foto dei pedinamenti e il duro tallone degli inquirenti premerà con forza il ventre molle e più infedele della classe dirigente. In confronto al passato, soprattutto a Tangentopoli, non c’è alcun paragone; è la più gigantesca operazione di spesa pubblica dalla ricostruzione postbellica in poi e nessuno può minimamente immaginare che il potere inquirente resti alla finestra. Le indagini penali non sono un rendiconto contabile, né una verifica ex post, sono il bisturi che affonda nella carne viva delle attività amministrative e politiche e cercano di cogliere “ora e subito” collusioni e imbrogli.
È uno scenario totalmente indifferente alla pur discutibile abrogazione dell’abuso di ufficio o all’abolizione del potere d’appello del pubblico ministero e a tutto ciò che si agita intorno alla tanto discussa riforma Nordio. Minutaglie, scarabocchi rispetto al possente confronto che attende il potere politico nel breve e medio periodo e rispetto al quale la nuova razza padrona non può scampare in alcun modo perché nessuna legge o riforma sarebbe sufficiente ad arginare la possente e collaudata macchina investigativa del paese che ha portato, a esempio, a braccare latitanti imprendibili sino a cancellarne l’esistenza in carceri inviolabili.
È il paesaggio irredimibile di Tomasi di Lampedusa quello che si squaderna quotidianamente innanzi agli occhi di una parte non marginale della magistratura italiana e che, tuttavia, vuole tentare di bonificare quasi fosse una palude mefitica. Se non ci si misura con questa percezione e con la sua radicale profondità e ci si abbandona a minacce isteriche e dichiarazioni risentite non si comprende quanto impari sia la guerra asimmetrica i cui bagliori si stagliano all’orizzonte e come inevitabili ne siano le sorti. Tra un’élite addestrata e compatta, adusa al «mestiere delle armi», e un ceto impreparato a contenere i propri eccessi e indisponibile a defenestrare le proprie mele marce il pendolo della storia ha deciso altre volte.