Cala la tensione
Riforma della giustizia, tra governo e toghe è tregua: e l’Anm fa marcia indietro
Il sindacato dei magistrati dice di non volere lo scontro e torna a toni concilianti per ricucire con l’esecutivo. Che fa la voce grossa ma terrà la separazione delle carriere nel cassetto
Giustizia - di David Romoli
Sembra l’ennesimo colpo nel botta e risposta tra politica e magistratura ma lo è solo in superficie. Sotto il pelo dell’acqua l’Anm fa il possibile per raggiungere subito una tregua con il governo e chiudere l’incidente prima che diventi grave nella sostanza e non solo nell’apparenza. Il presidente Santalucia strilla con quanto fiato ha in gola che le toghe non hanno mai voluto e cercato lo scontro: «È un accusa così infondata, generica e anonima da rendere difficile persino difendersi».
Il segretario dell’Associazione Casciaro è anche più chiaro: critiche tecniche sì, quelle i magistrati se del caso possono e devono muoverle, però “spetta ovviamente solo alle forze politiche legittimate dal consenso popolare decidere quali siano le riforme più appropriate”. Se non ci fossero alle spalle gli ultimi decenni sarebbe l’enunciazione dell’ovvio e corretto rapporto tra poteri dello Stato, così come sancito dalla Costituzione. Dopo una lunghissima epoca segnata da invasioni di campo reciproche e di ogni tipo è un’affermazione molto meno banale e più conciliante. Se la premier ha avuto l’impressione di essere oggetto di un attacco, e ce la ha avuta eccome, si è sbagliata: questo il messaggio dell’Anm.
Il Colle ha sul tavolo il nuovo ddl Nordio di riforma della giustizia, quello che tra le altre cose cancella il reato di abuso d’ufficio. È arrivato tardi non per il viaggio del presidente, come da immancabile alibi, ma perché per il governo mettere mano alla giustizia è sempre un’impresa e già il ritardo in questione segnala tutta l’incertezza e l’imbarazzo del governo quando si muove sul terreno più minato che ci sia. Su cosa farà il presidente può esserci suspense solo nella mente di chi è fuori dalla realtà: bocciare un ddl in partenza sarebbe una mossa da guerra nucleare, oltre tutto assolutamente ingiustificata. Se su alcuni particolari il presidente riterrà opportuno consigliare correzioni lo farà lontano dai riflettori, ricorrendo alla moral suasion e puntando sulla possibilità di emendare il testo in aula. Certo non partiranno dal Colle bordate che possano aumentare la tensione.
Il governo, da parte sua, sembra deciso a evitare la sola mossa che renderebbe lo scontro inevitabile. Al ministero della Giustizia sulla separazione della carriere tutto è fermo. Gli ufficiali di FdI confermano che la misura “fa parte del programma”. Però non ora. A suo tempo. Alla fine del percorso riformatore, come una specie di ciliegina sulla torta. Il problema è che trattandosi di una riforma costituzionale i tempi sono di per sé molto lunghi, il che, se l’obiettivo fosse davvero arrivare alla separazione, consiglierebbe all’opposto di muoversi celermente. La realtà è che il vero provvedimento della discordia, appunto la separazione delle carriere, è su un binario morto e con ogni probabilità ci resterà per l’intera legislatura.
La faccenda, del resto, è in mano al sottosegretario Mantovano, magistrato e molto vicino alla magistratura, con un’influenza diretta sulla corrente più forte che ci sia oggi tra i togati. Nei giorni scorsi, con l’abituale discrezione, si è dato da fare per svelenire il clima: è assolutamente certo che continuerà a farlo. Lo spettro della separazione delle carriere resterà in campo solo come strumento di condizionamento, da brandire come minaccia perenne. Gli estremi per arrivare alla tregua che tutti vogliono ci sarebbero tutti. Eppure il caso non è chiuso e non si chiude. La tensione non scema, alimentata anche da un silenzio della premier che inizia dopo giorni di mutismo ad apparire imbarazzante, oltre che molto imbarazzato, quasi increscioso.
Il problema della destra, più che varare davvero una riforma radicale, sembrano essere le polemiche quotidiane, gli attacchi dei giornali, la resistenza rumorosa ma nella sostanza poco consistente di una magistratura che non è più quella del 1994 e non ha più la forza che vantava nei decenni precedenti. In un simile contesto la puntata di ieri di Report, con un nuovo affondo sul caso Santanchè, era attesa nei palazzi del governo con molta più trepidazione degli esiti del direttivo dell’Associazione nazionale magistrati. È la sindrome dell’assedio, propria di un partito piccolo e sempre sotto scacco come era il Msi ma anche sino a un paio d’anni fa la stessa FdI. Quella che ha precipitato il governo in una situazione scabrosa che sarebbe stato facilissimo evitare e che ora gli impedisce di uscirne.