Il progetto naufragato
Il presidenzialismo naufraga, i moto contro Macron bloccano il governo
Autonomia odiata dal Sud, Macron in tilt: Giorgia teme la fuga dei consensi e mette i piani per il Colle in stand by
Politica - di Pasquale Pasquino
Per ora non si sa nulla delle riforme istituzionali, promesse dal governo e sulle quali si attende la proposta del ministro Casellati che l’ha annunciata per luglio. È improbabile che nella bozza si parli di presidenzialismo, ovvero di elezione diretta del capo dello Stato.
Vi fanno ostacolo la spaccatura dell’opinione pubblica (i contrari al presidenzialismo sono grossomodo pari ai favorevoli, fonte Swg), la sempre minore buona impressione dei sistemi in vigore negli Usa e ormai anche in Francia e, oltretutto, la necessità in tale ipotesi di una massiccia revisione della Carta e anche la diffusa popolarità di Mattarella, che incarna perfettamente il rappresentante della nazione e non di una sola parte di essa, come lo sarebbe, invece, un presidente scelto attraverso una competizione di voto tra forze che si oppongono dinanzi al corpo elettorale. Non a caso, per due italiani su tre (66%) è importante il fatto che il presidente della Repubblica continui ad avere un ruolo super partes rispetto alla contesa politica (fonte Ipsos).
Inoltre, bisogna tener conto anche della necessità del premier Meloni di trovare un accordo con parte almeno dell’opposizione, al fine di evitare un referendum confermativo, rischioso come mostra l’esperienza passata, e necessario, come si sa, se la riforma non ottenesse la maggioranza qualificata in Parlamento. Nella bozza governativa ci potrebbe essere qualche proposta di cancellierato, ovvero di rafforzamento del ruolo del primo ministro. Anche dal punto di vista dei cittadini, il premierato appare gradito (61% di favorevoli, fonte Swg) e supera in popolarità il presidenzialismo (25% versus 20%, fonte Ipsos).
Attraverso l’elezione diretta – che però richiederebbe un preciso collegamento con la legge elettorale dei membri del parlamento – oppure, in alternativa, l’indicazione del capo della coalizione prima delle elezioni, per confortare l’idea populista del rapporto diretto fra il leader e i cittadini elettori. Niente di nuovo sotto il sole, perché già ai tempi di Berlusconi e di Prodi si conosceva il nome del primo ministro prima della consultazione elettorale, nel senso che gli elettori sapevano che la loro scelta era fra l’uno o l’altro. Il discrimine è restare in un regime parlamentare, in cui il governo e il premier sono responsabili dinanzi al parlamento e possono essere quindi sfiduciati, oppure fuoriuscire dal regime parlamentare, su una strada avventurosa in cui è il premier che può sfiduciare, cioè licenziare il parlamento, se la sua maggioranza dovesse bocciarlo.
In realtà, se guardiamo alla storia politica della Repubblica, la fragilità degli esecutivi dipende dalla formazione inevitabile di governi di coalizione e dalla litigiosità dei partiti, più interessati alle loro sorti elettorali anche a brevissimo termine che a quelle della nazione, cioè dei cittadini. Ma nessuna forma di governo cambia questa natura che caratterizza oggi gli attori politici. Le norme sono nel migliore dei casi degli incentivi. L’opposizione sbaglierebbe comunque a voler difendere a spada tratta lo status quo attuale. Su questa posizione si dividerebbe e una parte di essa potrebbe andare con la maggioranza. Se invece l’opposizione, o almeno la sua componente maggiore, negozia unita con il governo in parlamento, un aggiornamento o un “completamento” della costituzione (come ha ben scritto Andrea Manzella) può essere decisamente utile.
Tuttavia, una seconda difficoltà sul cammino delle riforme può venire non tanto dall’opposizione quanto dall’interno della coalizione di governo. Al riguardo esisteva una specie di accordo fra Meloni e la Lega, finalizzato a portare avanti al tempo stesso la riforma a livello centrale e quella delle autonomie regionali, di cui si discute dalla ormai lontana revisione costituzionale del 2001. In questo caso, però, il problema è oggi più complesso. Alcune regioni del Centro e tutte quelle del Sud sono ostili alla proposta Calderoli poiché, a torto o a ragione, temono che l’autonomia favorisca le regioni del Nord a scapito di quelle più deboli del Meridione.
Nelle democrazie rappresentative, a differenza che in tutti gli altri regimi, i voti hanno un peso decisivo. E Giorgia Meloni non può alienarsi una parte importante del suo patrimonio elettorale. Senza tener conto del fatto che il regionalismo non fa parte del bagaglio ideologico della destra storica italiana. L’accordo e lo scambio interno alla maggioranza da questo punto di vista sembrano di conseguenza in questa fase particolarmente difficili. Meloni, arrivata a Palazzo Chigi, si deve esser resa conto che di potere ne ha abbastanza.
E che non le conviene – in cambio di avere quasi nulla che le serva a stabilizzare la sua posizione di leader della destra – identificarsi e sostenere le posizioni della Lega sulle regioni, promuovendo delle riforme che potrebbero farle potrebbe perdere un pacchetto consistente di voti nelle regioni del Sud . Le due riforme, come si è detto, dovevano andare avanti insieme. Ma oggi potrebbe succedere addirittura che per il momento entrambe debbano fermarsi, in attesa di tempi migliori.