La legge sul salario minimo
Il lavoro povero dilaga, ma il governo di destra lo difende
Dire che l’80% della forza lavoro è coperta da contratti e quindi tutto va splendidamente è nascondersi dietro un dito: Meloni lo sa che dal 2022 a oggi i salari reali sono scesi del 7,5%?
Politica - di Cesare Damiano
Mentre stiamo scrivendo abbiamo appreso che la maggioranza ha depositato alcuni emendamenti in commissione Lavoro della Camera che sono soppressivi della proposta di legge presentata dalle opposizioni sul salario minimo di legge. Ci saremmo aspettati una scelta diversa da parte del governo, mentre è arrivato un no ideologico, perché quel che comunque emerge in questi giorni, indiscutibilmente e con prepotenza, è il tema del lavoro povero che non può essere soppresso con un tratto di penna burocratico.
E allora discutiamone. L’Istat si è cimentata sull’argomento fornendo una serie di dati, come sempre preziosi, nel corso dell’audizione che si è tenuta presso la commissione Lavoro della Camera dei Deputati l’11 luglio scorso. Possiamo ragionevolmente affermare che al di sotto della soglia dei 9 euro lordi orari, secondo l’Istituto, si trovano all’incirca 3 milioni di lavoratori. Molti si interrogano sui motivi per i quali esiste questa situazione: quel che è certo è che l’adozione del salario minimo per legge può risolvere una parte del problema, ma la vera questione consiste nel ridare ruolo e vigore alla contrattazione. Infatti, è da questo punto che occorre partire per interrogarsi sulle cause che hanno indebolito il sistema contrattuale.
Sulla quantità di lavoratori coperti dai contratti nazionali di lavoro non c’è discussione: l’Italia, insieme ad altri Paesi europei (Austria, Svezia, Finlandia, Danimarca, Slovenia, Olanda e Francia, parte dei quali adotta anche il salario minimo), supera l’80% di copertura e, secondo alcune fonti specializzate, arriva fino all’85%. La domanda che dobbiamo porci, allora, è come mai esista un’area così vasta di lavoratori con bassi salari che l’Istat ha valutato nel 18,2% della forza lavoro dipendente.
L’Ocse, dal canto suo, ha presentato alcuni giorni fa l’edizione 2023 del suo Employment Outlook. Il rapporto che, spiega l’Organizzazione, “esamina gli ultimi sviluppi del mercato del lavoro nei Paesi dell’Ocse”. Esso si concentra, in particolare, sull’evoluzione della domanda di lavoro e sulla difficoltà di reperire le professionalità dei lavoratori necessarie al funzionamento del sistema produttivo, nonché sull’andamento dei salari in periodi di alta inflazione e relative politiche. Emergono, per quel che riguarda l’Italia, conclusioni piuttosto allarmanti.
Prima di scendere nel dettaglio, ricordiamo cosa è questa Istituzione. L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico è nata con la convenzione istitutiva firmata a Parigi il 14 dicembre del 1960. L’obiettivo era la sostituzione dell’Oece, l’Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea creata, nel 1948, per gestire il “Piano Marshall” che aveva l’obiettivo di ricostruire l’economia del Vecchio Continente dopo le distruzioni della Seconda Guerra Mondiale. Oggi ne fanno parte 38 Paesi europei, ma anche Nazioni delle Americhe, dell’Oceania e dell’Asia.
Nell’Employment Outlook 2023 l’Organizzazione certifica i disastrosi effetti dell’inflazione sui salari reali. Non sorprende che l’effetto più pesante si sia abbattuto sulle nostre retribuzioni. Rispetto al periodo pre-pandemia, alla fine del 2022 i salari reali sono scesi addirittura del 7,5%, contro una media dei 34 Paesi dei quali sono disponibili i dati che si attesta su un calo del 3,8%. È il caso di ricordare che questa può essere considerata solo l’accelerazione di una tendenza che, per il nostro Paese, è di lungo periodo. L’Italia è, infatti, l’unica nazione dell’area Ocse nella quale il potere d’acquisto dei salari è sceso, dal 1990 al 2020, del 2,9%. Ciò mentre, ad esempio, in Germania è salito di oltre il 30%. Secondo le proiezioni Ocse, l’inflazione da noi dovrebbe attestarsi al 6,4% nel ’23 e al 3% nel ’24. Anni nei quali i salari – quelli nominali, non quelli reali – cresceranno del 3,7 e del 3,5%.
In relazione a questi argomenti, l’Ocse ha svolto alcune considerazioni sul ruolo della contrattazione alla quale assegna un compito decisivo per mitigare la perdita di potere d’acquisto e distribuire in modo più equo il peso dell’inflazione. Su questo punto è necessario fare qualche osservazione sulla qualità della contrattazione stessa. Oggi abbiamo contratti nazionali di lavoro di durata triennale o quadriennale che non si rinnovano da sei, sette anni, e anche oltre. L’indennità di vacanza contrattuale, sostitutiva degli aumenti salariali, che doveva fare da stimolo al rinnovo, essendo troppo bassa è diventata, all’opposto, un freno, vale a dire un comodo rifugio per le imprese alle quali non conviene sottoscrivere nuovi accordi sicuramente più onerosi sotto il profilo salariale e normativo.
La contrattazione decentrata, aziendale o alternativamente territoriale, è relegata a un universo limitato di imprese medio-grandi. Idem per quanto riguarda il welfare aziendale, ancora sconosciuto nella maggior parte delle situazioni aziendali. L’Ipca, l’Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato a livello europeo, che viene adottato per collegare i salari all’andamento dell’inflazione, esclude dal suo paniere quei beni energetici che sono stati il fattore fondamentale dell’aumento dei prezzi. Non a caso, categorie avvedute come quella dell’industria metalmeccanica, hanno inserito nell’ultimo rinnovo contrattuale una clausola di allineamento all’inflazione reale delle rate annuali di incremento salariale calcolate inizialmente sul 2%. Risultato: l’ultimo aumento ricalcolato passa da 27 a 123 euro mensili.
È perciò necessario puntare su un aggiornamento delle regole della contrattazione che sono invecchiate. Estendere a tutte le categorie la qualità della contrattazione di quelle più lungimiranti e virtuose, permetterebbe di difendere meglio la condizione dei lavoratori.
Il sistema contrattuale ha trovato una sua definizione nel lontano 1993, al tempo del governo Ciampi. La contrattazione aziendale, conquistata all’inizio degli anni 60 al tavolo dei metalmeccanici dell’Intersind, l’Associazione delle aziende di Stato dell’epoca, poi estesa ai settori industriali privati e, successivamente, generalizzata a tutti i comparti produttivi, trova la sua legittimazione definitiva, come abbiamo già ricordato, con il Protocollo firmato da Governo, Cgil, Cisl, Uil e Confindustria il 12 luglio del 1993. Purtroppo, le regole definite a quel tempo, che rendevano efficace e tempestiva la contrattazione, sono state nel corso degli anni annacquate, volutamente dimenticate o addirittura cancellate, come abbiamo ricordato in precedenza. Hanno pesato, a questo proposito, fattori come la la crisi del 2008 e, successivamente, la pandemia.
Se vogliamo davvero combattere il lavoro “vulnerabile” o la “bassa retribuzione”, come ci ricorda l’Istat, occorre agire su più piani: recepire per legge i minimi salariali dei contratti nazionali cosiddetti leader, settore per settore, al fine di conferire ad essi il valore “erga omnes”: bisogna considerare essenziale difendere il Tec (Trattamento Economico Complessivo) e non solo il Tem (Trattamento Economico Minimo); raggiungere gradualmente una soglia di salario minimo per legge, paga base più contingenza: la proposta dei 9 euro lordi orari delle opposizioni rappresenta una utile indicazione e può aiutare a sconfiggere i contratti pirata che si fondano su una logica di dumping salariale e normativo e che non sono minimamente rappresentativi: non dimentichiamo che al Cnel sono stati depositati circa 1.000 contratti di lavoro, mentre quelli siglati da Cgil, Cisl e Uil con le controparti datoriali si fermano a 162 e coprono, da soli, oltre il 90% della contrattazione che viene svolta; applicare il salario minimo, da subito, a quei lavoratori che non hanno ancora un contratto di lavoro: circa il 15-20% del totale; intervenire sul mercato del lavoro riportando le nuove assunzioni alla tipologia del “lavoro standard”, cioè a tempo pieno e indeterminato; stabilire nuove regole di rappresentatività sindacale.
Infine, quando parliamo di salario povero dobbiamo avere ben chiaro in mente che esso è determinato non solo da una bassa retribuzione oraria, ma anche dalla presenza di rapporti di lavoro caratterizzati da una “ridotta continuità nel tempo (contratti a termine) e da una bassa intensità lavorativa (orari corti e part time imposto)”, come risulta dall’audizione Istat alla Commissione Lavoro della Camera l’11 luglio 2023. È giunto il tempo di affrontare, nella sua complessità, il tema della qualità del lavoro e dell’impresa, se vogliamo gestire in modo adeguato le varie transizioni in corso: ecologica, digitale e delle infrastrutture, tutte necessarie per la modernizzazione del sistema Paese.