Sarebbe stato meglio se avessero revocato i permessi a Salvatore Parolisi, condannato a vent’anni di reclusione per l’assassinio della moglie, con motivazioni tipo queste: “Perché sì”, “Perché ci girà così”, “Perché il giudice fa quel cavolo che gli pare”. E invece a quel condannato, che ha scontato i primi otto anni di carcere professando la propria innocenza ma mantenendo il comportamento presumibilmente ineccepibile che gli ha consentito di fruire delle prime licenze, si rimprovera (ascoltate bene) di considerare ingiusta la condanna a suo carico. Un’intervista rilasciata dal detenuto, infatti, testimonierebbe, secondo la magistratura che gli revoca i permessi, “il vissuto di chi ritiene di essere stato ingiustamente condannato”. Scandalo.
Tradotto, significa che il detenuto non merita di essere mandato ai servizi di volontariato, fruendo appunto e a tal fine dei permessi necessari, se non si inchina alla sentenza che lo ha condannato e se dunque non confessa di aver fatto ciò che la giustizia gli imputa. Per godere dei benefici di legge, insomma, il destinatario di una condanna non deve dimostrare di non essere più pericoloso, di poter svolgere per il bene comune attività fuori dal carcere, di poter essere reinserito in società senza nocumento per gli altri: no, deve dare prova di aver “compreso il significato e la valenza” della condanna e dei permessi premio. Tipo l’eretico sottoposto a inquisizione: deve comprendere il significato della corda e della mordacchia, e capire il valore del provvedimento che lo libera da quei vincoli, cioè l’equanimità dell’aguzzino che premia la soggezione del condannato alla sacralità della giustizia.
È inutile precisare che la responsabilità di questo Parolisi per l’assassinio della moglie non viene in nessun conto nella discussione di questo sviluppo della vicenda giudiziaria, che è chiusa appunto con la sentenza che ha accertato la commissione del delitto e il nome di chi l’ha commesso. La discussione è su un altro fronte: su quello del diritto di fruire dei permessi stabiliti dalla legge a prescindere (si spera) da ciò che il detenuto pensa della sentenza. A prescindere (si spera ancora) dagli psicologismi giudiziari sul dovere intimo del detenuto di dare ragione alla giustizia che lo ha condannato. A prescindere, infine, dal “lavoro introspettivo” cui il detenuto, secondo questa giurisprudenza strabiliante, sarebbe tenuto per poter ambire a fare volontariato in una parrocchia.
Salvo credere che il condannato, per ottenere il permesso di svolgere attività fuori dalla prigione, non debba semplicemente comportarsi bene e dare segno di non essere pericoloso: ma adorare la giustizia che lo ha condannato e rinunciare al diritto di professarsi innocente. Per tornare in società, dunque, non quando la sua situazione dimostra che non può più far male e anzi potrebbe essere in qualche modo utile alla società: ma solo quando piega la schiena per baciare la pantofola del magistrato che ha scritto la sua condanna. È una giustizia da brividi quella fondata sulla confessione e sulle implorazioni del condannato.