La lettera
Marina Berlusconi si scaglia contro la procura di Firenze: “Vogliono la damnatio memoriae di mio padre”
La presidente di Fininvest contro l’inchiesta della procura di Firenze sulle bombe del ‘93: “Il conflitto tra magistratura e politica è più vivo e violento che mai” Ma il j’accuse suona anche la sveglia a Forza Italia sulla riforma.
Politica - di David Romoli
Marina Berlusconi, donna pochissimo loquace e aliena da ogni tentazione di presenzialismo, prende carta e penna e scrive al Giornale una lunga e furibonda missiva. Può sembrare solo lo sfogo di una figlia che vede suo padre “perseguitato anche dopo la morte” in base agli “assurdi teoremi di certi pm intoccabili”. Ma se il padre perseguitato si chiamava Silvio Berlusconi e la figlia esasperata è la donna che ha potere di vita o di morte sul partito fondato dal papà, i confini tra la dimensione privata e quella politica sfumano.
L’ira di Marina è legata a un fatto specifico: l’indagine della procura di Firenze che ipotizza una cospirazione mafiosa dietro la vittoria di Forza Italia e del Polo delle libertà nel 1994: gli attentati del 1993 sarebbero stati fatti proprio per spianare la strada al Cavaliere, a suon di bombe. L’ipotesi sconfina nel surreale, a maggior ragione dopo che per una ventina d’anni le stesse bombe erano state inquadrate, sempre a norma di teorema però diverso, nella famigerata e inesistente “trattativa”. Stato-mafia. “Non doveva finire con la morte di Silvio Berlusconi la guerra dei trent’anni? No, purtroppo non è così. E il nuovo obiettivo è chiaro: la ‘damnatio memoriae’”, conclude Marina.
La difesa appassionata di Silvo Berlusconi occupa buona parte della lettera. La presidente di Fininvest ricorda “il suo orrore per ogni forma di violenza, la sua considerazione per ogni singola persona”. Ma più rilevante dal punto di vista politico è il violentissimo attacco contro una “sia pur piccola parte della magistratura” trasformatasi in “casta intoccabile e soggetto politico teso solo a infangare gli avversari, veri o presunti”. L’imprenditrice si scaglia contro l’avviso di garanzia adoperato solo “per garantire che l’imputato venga subito messo alla gogna”. Denuncia la “tenaglia pm-giornalisti complici che rovina la vita ai diretti interessati, condiziona la vita democratica del Paese, avvelena il clima, calpesta i più sacri princìpi costituzionali”. Il passaggio chiave è esplicito: “Il conflitto tra magistratura e politica è più vivo e violento che mai. Siamo incastrati in un gioco assurdo, che ci costringe a un eterno ritorno alla casella di partenza. È una sensazione sconfortante, perché sembra che ogni ipotesi di riforma diventi motivo di scontro frontale, a prescindere dai suoi contenuti”.
Il fatto è che Forza Italia non può restare insensibile a un simile grido di dolore. La tentazione di coadiuvare la premier nello sforzo per rinviare la separazione delle carriere, principale posta in gioco, e gli altri elementi salienti di una riforma della giustizia, come l’inappellabilità della sentenza per i pm, inevitabilmente c’è. Certo, nelle file azzurre quella tentazione è molto meno forte che negli altri partiti del centrodestra, che hanno sempre trovato difficile coniugare la vocazione giustizialista con il garantismo in buona misura imposto da quello che era allora il capo assoluto.
Inoltre mancare proprio la riforma che, fra i tre capisaldi del programma, era quella in quota forzista sarebbe un guaio anche d’immagine. Per il partito di Berlusconi, infine, la necessità di mettere un freno all’invadenza della magistratura è diventata nel corso del tempo elemento davvero costitutivo del dna politico. Ma Tajani conosce e capisce le regole della diplomazia e dei rapporti di forza e non è affatto certo che la sua Fi punti i piedi. La spinta di Marina rende più difficile la manovra per stemperare lo scontro con la magistratura sacrificando gli elementi davvero rilevanti della riforma.
Non significa che possano riemergere suggestioni già strangolate in culla. L’idea di rimaneggiare il concorso esterno in associazione mafiosa è morta nel colloquio tra Sergio Mattarella e Giorgia Meloni della settimana scorsa. Domenica la premier ne ha solo certificato la cancellazione totale dall’agenda con quel drastico “Mi concentrerei su altre priorità”. Il ministro Nordio, che a ritoccare quello che definiva “il reato-ossimoro” era interessato davvero, mangia la foglia e si piega: “Con la premier siamo in totale sintonia e la modifica del concorso esterno non era nel programma”. Anche su qualche ritocco al ddl sull’abuso d’ufficio non dovrebbero esserci dubbi. Mattarella lo ha chiesto, l’Europa lo vuole, la premier ha promesso, Chigi fa sapere che una soluzione per fugare ogni dubbio di costituzionalità (e ogni irritazione di Bruxelles) si troverà.
Il problema si porrà subito dopo, perché l’ambiguità sull’intenzione o meno di separare le carriere dovrà essere sciolta e la posizione di Forza Italia sarà decisiva. La questione si intreccerà quindi anche con la competizione interna alla coalizione, destinata a montare nei prossimi mesi. Il tentativo di Salvini di alzare la posta sulla delega fiscale, proponendo una pace fiscale per i sospesi sino a 30mila euro, è un esempio chiaro. L’idea non ha alcuna possibilità di essere accolta nella delega che il governo mira ad approvare in tempo perché le nuove norme diventino operative già l’anno prossimo. Serve solo a fini di propaganda nella sfida tra i partner della coalizione in vista delle europee. Non è escluso che Forza Italia decida di fare la stessa cosa, in modo molto meno peregrino, brandendo proprio la riforma della giustizia.