X

“Ecco perché Gabriele Cagliari si è tolto la vita”, la verità del figlio Stefano

“Ecco perché Gabriele Cagliari si è tolto la vita”, la verità del figlio Stefano

Il 20 Luglio del 1993 Gabriele Cagliari, allora presidente dell’Eni, si toglie la vita in carcere. Siamo all’inizio di Tangentopoli. Gabriele Cagliari ammette le sue colpe ma si rende conto che quella condizione a cui lui viene sottoposto e alla quale sono sottoposti gli altri detenuti non è una condizione umana. Scriverà in una delle sue numerose lettere che in carcere si è “come cani in un canile”. E allora un gesto estremo, calcolato, quando ormai capisce che la speranza gli viene tolta dall’atteggiamento dei magistrati.

Il figlio Stefano, dopo aver pubblicato nel 2018 il libro Storia mio padre (edito da Longanesi, curato da Costanza Rizzacasa d’Orsogna e con prefazione di Gherardo Colombo) continua a portare avanti una missione che per lui è un impegno civile, anche se dolorosissimo, sul sito www.gabrielecagliari.it, ricordando le numerose lettere di suo padre, i fatti, i personaggi e quel tempo di Tangentopoli che ancora rimane una ferita aperta per tutti nel nostro paese.

Tangentopoli. Che momento era quello in Italia?
L’Italia era in una situazione difficile dal punto di vista economico e finanziario. Nel 1992 i tedeschi ci avevano abbandonato e c’era stata la svalutazione della lira, il malcontento cominciava a crescere. La Lega Nord interpretava questo malcontento, era un fenomeno assolutamente nuovo, anche per l’uso aggressivo e finanche volgare del linguaggio nel discorso politico. Era un paese che si era abituato a vivere di mazzette, di favori, di tangenti, un sistema diffuso a tutti i livelli, mentre il grande mito di Tangentopoli è che solo il ceto politico ne fosse coinvolto.
Tangentopoli travolse sostanzialmente una buona parte della classe dirigente, anche di quella imprenditoriale non solo quella politica, con tutte le conseguenze che ci sono state successivamente, che devo dire un po’ stiamo ancora pagando. Era un’Italia in cui, come ho scritto in Storia di mio padre, tutti incitavano all’uso delle manette, come se mandare in galera i politici risolvesse il problema della corruzione nel paese. All’asilo i bambini si inseguivano urlando “in galera, in galera!”

Non più giustizia ma giustizialismo dunque?
Certo, a quel punto si è scatenato il giustizialismo.

Il suo libro parte da un sogno (suo padre che in realtà non si era suicidato ma era fuggito fuori dall’Italia e comunicava solo con lei). Fa ancora quel sogno dopo 30 anni?
No. Ho sognato spesso mio padre ma non più in quella situazione. In realtà alla fine chi voleva fuggire ero io, come se volessi nascondermi per non dover continuamente ritornare a quella situazione così dolorosa. Con il libro e le molte interviste non mi sono più nascosto e ora, quando sogno mio padre, sono in situazioni diciamo così di serena vita familiare.

Se dovesse raccontare suo padre a chi non ha vissuto quegli anni e a chi ignora completamente la sua vicenda che cosa direbbe?
Quello che posso dire è che era un uomo estremamente intelligente, estremamente generoso, molto corretto, molto ambizioso. E tutte queste sue qualità mi sono state manifestate in parte anche dopo la sua morte. Per esempio, sul sito www.gabrielecagliari.it continuiamo a caricare contenuti e ultimamente abbiamo caricato le lettere dei detenuti che lo avevano conosciuto in carcere: emerge la personalità di un uomo che aiutava tutti quelli che ne avevano bisogno, chi non aveva i soldi per l’avvocato, chi non aveva strumenti per difendersi. Ed è stato un uomo di una visione straordinaria dal punto di vista della politica industriale. All’Eni aveva fatto cose che nessuno aveva fatto prima e che per venticinque anni nessuno ha più fatto. In questi mesi in Europa sono in corso degli studi sulla sua presidenza da cui risulta che allora l’Eni era l’unica società petrolifera che si occupava di sviluppo sostenibile. Fu l’unica major che partecipò a Rio, alla conferenza del 1992, e che mise nel suo piano strategico la difesa dell’ambiente e lo sviluppo sostenibile. Una società che era all’avanguardia nello studio delle tecnologie di difesa ambientale. Dopo di lui si è fermato tutto, è come se avessero cancellato lui e tutto quello che stava cercando di fare e che stava proponendo. Immagini: che cosa sarebbe stata l’Eni e l’Italia se quella politica fosse andata avanti? Ma era una politica che evidentemente dava un fastidio enorme alle grandi multinazionali del petrolio, che in quel momento negavano il problema dell’esaurimento delle risorse, negavano i problemi ambientali, negavano il riscaldamento climatico. Adesso questi temi sono quasi una moda, ma questo le fa capire che mio padre aveva una visione strategica lungimirante e unica. D’altronde quelle lettere che lui ha scritto, dove già descrive quello che sarebbe successo a causa di Tangentopoli vedono lontanissimo: tutto quello che lui ha scritto poi è successo.

In famiglia vi aspettavate che venisse arrestato?
Un po’ me l’aspettavo, perché avevo visto dei segnali sui giornali e diciamo che in quel periodo, ma diciamo non solo in quel periodo, c’era un filo diretto tra magistratura e determinati quotidiani. Il fatto che avevano cominciato a tirar fuori il suo nome voleva dire che c’era burrasca nell’aria. E anche papà se lo aspettava. L’ultima volta che ha visto suo nipote, mio figlio di tre anni, quando l’ha preso in braccio, il bambino ha cominciato ad urlare “in galera, in galera!”. Mesi prima erano telefonate continue, gente che voleva favori, perché in questo paese i favori erano all’ordine del giorno, mentre in quelle ultime settimane era calato il silenzio, tutti gli stavano alla larga.

Anche l’Eni lo ha abbandonato?
Il personale, i dipendenti, hanno amato mio padre come presidente, probabilmente come, se non più, di Enrico Mattei, perché mio padre era uno di loro, era cresciuto con loro, era un tecnico, era un uomo che conosceva tutti e che aveva qualità straordinarie. Il problema dell’Eni era quello di essere una società presente sui mercati mondiali, una società che non si poteva permettere di vedere il proprio nome infangato e su questo lui si è arroccato. Ha avuto questo tipo di atteggiamento: è riuscito, come ha scritto, a salvare il middle management e a far sì che tutte le responsabilità ricadessero su di lui, questo ha fatto sì che l’Eni non venisse coinvolta.

Nelle lettere suo padre descrive la condizione del carcere come quella di “cani in un canile”.
Il suo gesto è stato un gesto di denuncia della situazione carceraria. Ormai per sé aveva perso ogni speranza, visto l’atteggiamento dei magistrati nei suoi confronti, un atteggiamento che leggeva come un tentativo di annientarlo dal punto di visto umano, di farne un capro espiatorio. Chi restava fuori non si rendeva conto della condizione carceraria.

Resistette alla prigionia durante la Seconda guerra mondiale e non al carcere durante Tangentopoli. Perché mai secondo lei?
No, in realtà lo ha sostenuto benissimo, ma anche lì aveva una strategia: il suicidio, un gesto drammatico, ne ha fatto parte. Non solo quest’anno, ma ogni anno, ci sono decine e decine di suicidi in carcere, ma sui giornali non finisce niente. La notizia va sui giornali se il presidente dell’Eni si suicida in carcere, dopo quattro mesi e mezzo di detenzione, che lui ritiene ingiustificata. Il suo è stato un gesto di grande impatto, anche se mio padre non era un uomo da copertina come lo era Gardini, e questo gesto è stato capito non solo a San Vittore dove lo avevano conosciuto bene, ma anche nelle altre carceri e fuori dalle carceri.

La prefazione del suo libro è stata affidata a Gherardo Colombo.
Gherardo Colombo è uscito dalla magistratura e sostiene con forza che non è il sistema giudiziario che può risolvere i problemi della corruzione in Italia, come Tangentopoli ha dimostrato. Il mio libro non ha voluto essere di parte né essere “targato”, è un documento storico e come tale spero che sia letto. La partecipazione di Gherardo Colombo è stato un modo per mostrare il nostro tentativo di essere equilibrati.

I magistrati che allora si occuparono del caso di suo padre, anni dopo, visto il drammatico epilogo, si sono fatti sentire in un qualche modo?
No. Nulla.

Perché suo padre ha accettato quel sistema?
Mio padre ha ammesso di aver sbagliato, lo ha anche scritto. C’è una lettera che ha scritto a Scalfari da San Vittore, in cui dice che pagare i partiti era l’unico modo per poter lavorare tranquilli. Soffriva questo sistema, come più volte ha scritto, ma ne aveva bisogno perché altrimenti non avrebbe potuto fare quello che voleva fare. C’è un’intervista a Newsweek, che si trova tradotta nel sito, da cui si capisce che mio padre fuori dall’Italia, senza i vincoli della politica, si muoveva in modo completamente diverso. Già allora aveva strategie verso i paesi che oggi sono considerati emergenti che nessuna delle major petrolifere aveva. Offriva collaborazione: tecnologie in cambio di risorse, aveva un approccio che spiazzava tutti: evidentemente mio padre dava fastidio.

Sua moglie muore, suo fratello scopre di avere l’Aids, suo padre in carcere, che momento è stato quello per lei?
Avevo un bambino di 3 anni, la cosa più importante era andare avanti per lui. Ho avuto un momento di sconforto, forse di rabbia, solo quando abbiamo aperto quella lettera (una lettera dove Gabriele Cagliari annuncia il suo suicidio ma che chiede alla moglie di aprire solo al “suo ritorno”, ndr.) perché anche in quel caso aveva anteposto i suoi ideali alla famiglia. Anni dopo ho capito da tutto quello che è venuto fuori e dalle sue lettere che forse ci ha risparmiato tanti e tanti di quei problemi, di quelle delusioni, tante di quelle sofferenze che il metterlo sotto processo per decenni avrebbe significato.

Che sentimento ha provato nei confronti della magistratura di allora?
Hanno commesso degli errori tragici, sono stati degli ingenui, pensando di fare del bene hanno fatto invece molto male.

Ingenui è diverso da dire che erano “ambiziosi”, come li definiva suo padre.
Diciamo che sicuramente Di Pietro era molto ambizioso. Poi di quasi tutti si è visto di che pasta sono fatti. Perché uno dopo l’altro sono caduti, scivolando su bucce di banana varie, e hanno cominciato a litigare tra di loro. Degli illusi, perché pensavano di cambiare il paese, quando in realtà stavano usando in maniera strumentale il loro potere. Pensando di eliminare la corruzione in Italia, hanno invece favorito un peggioramento drammatico della situazione politica e hanno decapitato una parte del sistema imprenditoriale italiano.

Come mai non avete incontrato Martelli (ma solo sua zia, come viene scritto nel libro)?
Io quel giorno non ero a casa di mia madre. Il partito… il sistema politico era il principale responsabile di quello che stava succedendo (non solo il partito socialista ma tutti i partiti, compreso il partito comunista). Mio padre era un socialista e la nostra sensazione era che il partito lo avesse abbandonato. Io l’ho vissuta come se Bettino Craxi fosse fuggito abbandonando i suoi colonnelli. Martelli in quel momento era una figura piuttosto ambigua perché stava cercando di scalare a sua volta il partito socialista sostituendosi a Craxi. Il problema è che tutti quanti sono stati poi tirati dentro. Il problema non era più questo o quel partito, il problema era il sistema, almeno così veniva venduto a livello mediatico, e quel sistema politico è crollato, tanto è vero che al governo poi è salito un populista che di politico faceva finta di non avere niente.

Il comportamento della stampa?
Il comportamento della stampa fu vergognoso, sono stati senza pietà anche nei confronti di mio padre. Il loro problema era vendere e cavalcare l’inchiesta, lo hanno fatto tutti, a partire dalle reti di Berlusconi.

Di Pietro lo ha mai rincontrato?
L’ho visto a Napoli, in un autobus che ci portava da un aereo all’aeroporto, ma non ho avuto il coraggio di parlargli, non mi è sembrato proprio il caso. Eravamo uno di fronte all’altro: ci siamo guardati a lungo, ma in silenzio.

Nessuno dei magistrati di allora l’ha mai cercata?
Scusarsi sarebbe stato ammettere che hanno compiuto cose fuori dai binari dalla legalità, come scrive mio padre.

Suo padre che cosa si aspettava?
Durante gli interrogatori ha ammesso quello che pensava fosse utile ai magistrati, però nelle lettere scrive che i magistrati chiedevano informazioni su vicende che erano completamente avulse dai capi d’accusa, e non se la sentiva anche perché il giorno dopo qualunque cosa avesse detto sarebbe finita sui giornali. L’Eni che figura ci avrebbe fatto a livello internazionale? Che fine avrebbero fatto tutti i contratti che l’Eni aveva in piedi? Che fine avrebbero fatto gli accordi sul gas? In carcere mio padre ha difeso l’Eni e ha messo in evidenza quelle che sono le carenze drammatiche del sistema carcerario in Italia, anzi, la funzione anticostituzionale del sistema carcerario perché, se usi il carcere come tortura psicologica, è chiaro che siamo esattamente dalla parte opposta della rieducazione.

A chi dava fastidio suo padre?
Ho sempre pensato che il problema fosse che non ha voluto denunciare Craxi, ma ultimamente mi gira in testa un pensiero che mi spaventa. Mi sto rendendo conto che quest’uomo dava fastidio ai suoi concorrenti in tutto il mondo. Tutte le settimane Di Pietro era all’ambasciata americana, che cosa si dicevano non lo sapremo mai. Però se mio padre dava fastidio alle multinazionali del petrolio, a partire da quelle americane, allora bisognava fermarlo, togliergli il potere che stava esercitando.

Si sente che ce l’ha un po’ con Craxi…
Diciamo che è stato un grandissimo politico, straordinario, un uomo che tra l’altro stava cercando di ridare dignità politica all’Italia in campo internazionale, e forse per questo è stato punito, però umanamente si è comportato come un codardo. Quel discorso alla Camera – quando disse a tutti di guardarsi in faccia e che nessuno era escluso da quel sistema, e tutti quanti hanno fatto finta di niente – è stato probabilmente un errore, in quanto ha delegittimato la politica tout court. Fallito quel tentativo, capisci che il problema sei tu: e allora trasforma il processo in una denuncia! Non scappare, non andartene! Il suo era un ruolo politico fondamentale, ma è stato troppo umano, quando avrebbe dovuto comportarsi da politico. Mio padre non è stato umano altrimenti non si sarebbe ammazzato. Ma ha rispettato il suo ruolo. Craxi no.