In appena due settimane, è andato in fumo il 20% delle armi inviate dagli occidentali in Ucraina. Assieme all’arsenale di Kiev, brucia anche la foto di Vilnius, scattata nel segno dell’euforia per la belle époque di un dopoguerra già iniziato. Se l’intenzione era quella di mostrare una Nato disposta a tutto pur di sciogliere l’enigma dell’influenza russa, non avrebbe potuto esserci scelta migliore della città che un tempo era territorio sovietico.
Con l’ingresso di Svezia e Finlandia nell’alleanza atlantica, la sorveglianza armata dell’accesso di Mosca al Baltico induce una sensazione di claustrofobia. Senza infingimenti l’asse euro-atlantico ritiene ormai nulla la credibilità della reiterata minaccia russa di fare ricorso alla soluzione dell’arma nucleare tattica. Secondo il postulato di Biden, lo spettro atomico è realisticamente escluso non solo perché getterebbe per sempre l’orso moscovita nei bassifondi dell’etica pubblica, ma in quanto indurrebbe anche Pechino a prendere le distanze dal regime putiniano, che a quel punto crollerebbe all’istante.
Alla base della strategia degli Usa c’è l’idea che il macellaio in fondo ha un cuore (e una testa), e quindi, contro una linea rossa varcata con la fornitura di sempre più sofisticate armi, griderà via via più forte, senza però spingersi fino a reazioni incontrollate. Washington crede che il “criminale di guerra” resti comunque un attore razionale che non oserà mai tramutarsi in un giocatore disperato il quale, se messo alle strette, non esita ad attivare gli ordigni nucleari.
E allora ancora tank e bombe illimitate, tanto è certa la persistenza di un gioco che può dispiegarsi tutto sul metro del ragionevole calcolo della minaccia e della risposta. Una strategia complessa di guerra, però, non deve mai rinunciare ad un quadro reale delle condizioni, e quindi non è corretto restringere lo spettro delle possibilità che in astratto restano a disposizione del blocco avverso. La razionalità di Putin già è stata messa a dura prova dalla sua temeraria risoluzione di invadere un paese sovrano senza più confidare nelle opportunità che un tempo la diplomazia offriva. Dare per assodato che egli bluffa, quando agita rimedi apocalittici, obbedisce ad una volontà di rassicurazione che potrebbe avere degli appigli gracili.
C’è da augurarsi che sia solo la lucidità geografica a difettare al Commander-in-chief quando asserisce che “Putin sta perdendo la guerra in Iraq”. Tuttavia, il sospetto è che fragile sia anche l’assioma iniziale della sua visione tattica: che il nemico russo non disponga mai l’avvio della sua carta più temibile e mortifera, è infatti una scommessa che semplifica il ventaglio dei rischi eliminando uno scenario fosco dal quadro degli esiti non desiderabili ma pur sempre possibili. Anche l’altro tassello del castello argomentativo di Biden – “la guerra non sarà lunga, Putin ha perso” – è traballante alla luce delle difficoltà della controffensiva, delle perdite umane, della fuga in massa dall’Ucraina.
Affermare che sempre più armamenti a Kiev diminuiscono la durata della contesa, è un assunto di per sé aleatorio, privo di ogni consistenza obiettiva dinanzi alla guerra di attrito. Ogni approccio realistico richiede di mantenere aperta sul tavolo l’eventualità che il tempo delle inimicizie scorra indeterminato, tenendo presente che la risposta disperata affidata da Mosca al nucleare tattico rappresenta una circostanza che non è dato escludere dal novero delle possibilità.
In un tale quadro, l’escalation dello scontro ibrido, e il coinvolgimento crescente della coalizione euro-atlantica in un conflitto inedito contro una potenza nucleare condotto fuori dall’orbita dell’Onu (dove la Russia blocca ogni iniziativa in seno al Consiglio di sicurezza), sollecitano riflessioni di ordine politico-giuridico che in Germania sono già da tempo al vaglio di analisti e studiosi. Il giurista Jochen Abraham Frowein (Frankfurter Allgemeine Zeitung, 18 maggio 2022) si è chiesto se l’invio massiccio di armi in un paese in guerra, il prolungamento di una risposta difensiva verso una lunga conflittualità orientata alla “vittoria”, non configurino un coinvolgimento degli occidentali così assorbente nelle ostilità da far rientrare il loro attivo soccorso nella categoria della cobelligeranza.
Se è lecito il sostegno di altri Stati ad un popolo aggredito (secondo le implicazioni del diritto all’autodifesa, che è nondimeno arduo dilatare sino al proposito di riconquistare la Crimea dopo quasi 10 anni dall’annessione russa), da ciò non discende un’estensione illimitata dell’uso legittimo della forza sino a lambire il concetto di guerra per procura a salvaguardia della civiltà liberaldemocratica. La fornitura di armi, tecnologie, risorse dell’intelligence volte alla disintegrazione della Federazione Russa (la sua frantumazione territoriale, con conseguente “decolonizzazione”, è evocata come esplicito obiettivo dal governo di Kiev e da alcuni alleati dell’Est) o al mutamento del suo regime interno (secondo dei cascami fuori stagione della dottrina neocon) sfida il concetto di neutralità e apre verso l’attrazione dei paesi europei quali parti attive nel conflitto.
Il problema non è tanto di natura giuridica (Frowein non dubita sulla caduta in una condizione di intervento militare diretto, visto che “la posizione delle parti ai sensi del diritto di guerra per quanto riguarda l’uso della forza armata è allora la stessa”), quanto di ordine politico-effettuale. Putin stesso è costretto a muoversi sulla linea dell’ambiguità perché le conseguenze di una qualificazione della Nato come attore immediato dello scontro – si pensi che, alla luce della Convenzione dell’Aja del 1907, si ritiene un corollario della neutralità il divieto di inviare armamenti ad un paese in guerra – non sono gestibili sul piano del dispiegamento della forza e consigliano di arretrare.
In astratto, la qualità di belligerante renderebbe automatico l’attacco contro il territorio di uno Stato ostile (ogni membro del consesso euro-atlantico, spiega Frowein, diventerebbe “parte di un conflitto. Ciò significa che le sue forze armate potrebbero essere attaccate dalla Russia. Ciò vale anche per le posizioni in suolo tedesco”); in concreto, però, questa ritorsione verso un nemico riluttante e non direttamente combattente – nessuno, a parte qualche ex segretario generale della Nato, si sogna di portare gli anfibi sul suolo ucraino – non si verifica perché la Russia sconterebbe delle conseguenze oltremodo negative.
E così, mentre per l’Occidente è lineare il principio secondo cui la Bielorussia, benché non impegnata in prima persona negli scontri, come alleata di Mosca è suscettibile di equiparazione quale Stato canaglia (a Wimbledon i tennisti di Minsk gareggiano privi della loro bandiera), per la Russia non vale l’automatismo di considerare l’amicizia con Kiev un appiglio giuridico per inquadrare i paesi europei in un campo militare nemico.
In questa fluida condizione, per cui alla solo lambita belligeranza degli Stati occidentali (le bombe a grappolo per definizione sono rivolte anche contro la popolazione civile) non segue da parte russa una imputazione espressa di inimicizia per una carenza di forza, crescono i pericoli e fugge la politica. E’ vero che, negando all’Ucraina il lasciapassare per l’ingresso nella Nato, e imponendo anzi compiti immediati ad un paese ancora esitante sui principi della democrazia, il presidente Biden ha inteso raffreddare il clima che culmina nelle prove di un conflitto mondiale. E però altre mosse necessarie vengono scartate.
La guerra difensiva è anch’essa un processo di cui la politica deve governare tempi e sviluppi in vista del recupero del controllo collettivo degli scopi di sicurezza. All’autotutela deve sempre accompagnarsi lo sforzo comune della risoluzione della controversia con il concorso degli ambiti istituzionali e degli attori internazionali più influenti. Per questo, avvertiva Machiavelli, “sapere nella guerra conoscere l’occasione e pigliarla, giova più che niuna altra cosa”. Proprio la necessità di “pigliare l’occasione” è stata lasciata cadere, e alla logica di potenza non si è mai affiancata l’apertura di un laboratorio negoziale. Sostenere che solo dopo la “vittoria” (resa dei russi con conseguente ritiro dai territori illegittimamente occupati) comincia il tempo della mediazione, comporta la negazione del primato degli organismi internazionali.
Ad ostruire lo spazio della politica sono i residui degli insegnamenti dell’amministrazione Bush Jr., che segnarono l’apogeo dell’unilateralismo americano. “L’idea epocale della dottrina Bush può essere meglio descritta come un rimodellamento liberale fondamentale del mondo e prevede una idea egemonica che conferisce agli Usa un’autorità unilaterale sorretta da richieste di eccezione, da un diritto speciale, da limitazioni di sovranità. L’uso della forza non è giustificato dagli interessi di sicurezza americani, ma viene presentato come un’azione per il bene di una più ampia comunità di Stati. Questa pretesa di autorità deriva dalla convinzione degli Usa di essere un paese portatore di un’idea morale” (H. Meiertöns, The Doctrines of US Security Policy. An Evaluation under International Law, Cambridge University Press, 2010, p. 271).
In qualche modo, questa ideologia continua a ispirare anche la condotta americana nella gestione della questione ucraina, che viene spinta ben oltre il terreno giuridico consolidato, quello della legittima difesa come misura estrema e limitata nel tempo che concerne esclusivamente l’interesse dello Stato aggredito. Il fascino di una guerra in nome della civiltà occidentale, per il cambio di regime in un’autocrazia o per la riaffermazione della leadership mondiale, sorregge l’ambigua figura di un conflitto per procura che favorisce una restaurazione imperiale la quale, date ormai per sedate le turbolenze dei fondamentalismi religiosi, reputa irrilevanti per la governance globale i segnali di pluralismo già emersi.
Manca il ponderato traghettamento verso l’ineluttabile passaggio alla molteplicità delle influenze per far sì che il nuovo equilibrio sia non anti-americano, ma post-americano. E’ evidente che “esercitare il controllo su un ordinamento giuridico internazionale sempre più complesso e pluralista può essere molto più complicato ora di quanto avrebbe potuto esserlo per i poteri dominanti in passato” (H. Meiertöns, cit., p. 238). Questa consapevolezza è assente nelle strategie odierne. La belligeranza “de facto” allargata conferisce allo scontro in Ucraina un valore costituente per definire i confini del nuovo ordine multipolare.
In difficoltà davanti alla capacità competitiva che la Cina come potenza del libero scambio ha raggiunto sul piano economico, l’America, oltre alle tentazioni protezioniste in campo commerciale, trasferisce le ostilità nel settore dove la sua superiorità è ancora soverchiante: quello militare (il rapporto tra Cina e Usa nel controllo di basi estere è di circa 1 a 640). E quindi, annichilite le bocche da fuoco della Russia, sistemata la soggettività della vecchia Europa alle prese con la ricostruzione ucraina, gli Stati Uniti attraversano il disordine globale vagando confusamente tra sogni neo-imperiali, scene di bipolarismo asimmetrico e insidie di un multipolarismo non condiviso e quindi fuori controllo. Una via di pace non è solo eticamente più giusta, è per tutti anche la più conveniente.