X

Romano Prodi, l’ex premier che ha le idee giuste per la sinistra

Romano Prodi, l’ex premier che ha le idee giuste per la sinistra

Appena estromesso dalla presidenza della Fondazione Pd cui molto teneva, perché per lui la politica non ha senso se non si dirama come luogo permanente della produzione delle idee, Gianni Cuperlo, intervenendo a Cesena, ha dato con il suo stile una lezione su come impostare il rapporto tra maggioranza e minoranza entro un partito.

Se, per un difetto di iniziativa, chi ha perso alle primarie si propone di collaborare con la segretaria rifiutando però ogni strutturazione della propria sensibilità o “energia”, e chi ha vinto ai gazebo, per la pigra e alquanto burocratica propensione al “caporalismo” che non risparmia gli outsider, si sente autorizzato al repulisti, e quindi alla cinica appropriazione delle residuali spoglie, allora cade il presupposto stesso di un costitutivo pluralismo delle culture.

La rinuncia alla “eresia” da parte degli sconfitti e l’occupazione dei posti chiave ordinata dal vincitore, che con la promozione dei fedeli proietta la propria ombra sull’organizzazione, conducono allo stesso risultato, ovvero alla riduzione di ogni vitale complessità. Il comando pieno, in nome di una investitura esterna che affranca dai rituali tempi dei caminetti, è una semplificazione che inaridisce quella positiva attitudine che Cuperlo chiama sforzo di “governare le differenze”. È chiaro che “le differenze” che si organizzano entro un partito sono altra cosa rispetto alle dinamiche maggioranza-opposizione che operano entro una cornice istituzionale rappresentativa.

La minoranza intrapartitica non è equiparabile ad una opposizione politica. E per questo pare una sgrammaticatura l’esternazione di un membro della segreteria che si mostra lesto ad evocare in successione una “guerra civile” contro tendenze, singole personalità, giornali d’area. Lo spiega efficacemente Cuperlo con un esempio: “Se 100 dirigenti entrano in una riunione, e alla fine escono con le stesse idee che avevano quando sono entrati, allora quella discussione non è servita a niente”. Questo rito del dibattito solo simulato si verifica quando, al posto delle analisi e delle argomentazioni rigorose, nei simulacri di partito contano regimi di irrigidimento che inducono al conformismo, all’elezione per acclamazione, all’attestazione di visibili segnali di obbedienza al capo.

Lo spirito di unità è però altra cosa rispetto all’unanimismo, ed esige, in chi ricopre la funzione della leadership, quell’esercizio che Lorenzo Guerini ha definito, per un organismo geneticamente plurale, la disponibilità ad “interpretare la complessità”. Avrebbe potuto insistere sul tasto della recriminazione, parlando in nome degli iscritti che lo avevano incoronato e sono poi stati in qualche modo traditi nel loro pronunciamento dalla mobilitazione di forze esterne. E invece Stefano Bonaccini ha inteso conferire un respiro unitario alla dialettica con la segretaria, che pure sfida apertamente in nome di una forza più popolare, attenta al lavoro, alla sanità e ai beni pubblici, e meno incline agli orientamenti liberal con i quali il partito-movimento si concentra nella rappresentazione della politica sub specie communicationis.

L’ancoraggio valoriale (richiamo all’antifascismo come radice del patriottismo costituzionale, tematiche dei nuovi diritti) non può essere disgiunto da una visione dello sviluppo che scongiuri il destino di un paese in stagnazione nel quale i pensionati sono più numerosi dei lavoratori in più di una provincia su tre. L’esortazione di Bonaccini è di “uscire dallo sguardo ombelicale” per sposare una prospettiva che faccia i conti con la sconfitta senza precipitare in una sbrigativa disposizione alla damnatio memoriae.

Se il Partito democratico intende rispondere allo scacco cui Letta lo ha ineffabilmente condannato (per il rifiuto preventivo delle alleanze e per le posture sulla guerra che sono apparse a tratti ai limiti dell’intransigenza), farebbe bene a meditare a fondo sulla lezione di “radicalismo dolce” che è stata offerta da Romano Prodi. Egli mette a fuoco, con qualche venatura autocritica, i problemi, le idee sbagliate, le mancate analisi che hanno impedito al Pd di vincere almeno una volta in 15 anni di vita. Le semplificazioni unilaterali sulle riforme elettorali e costituzionali hanno determinato scivolamenti politici. Con la decisione di accelerare le norme sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, è stata minata una delle condizioni fondamentali della democrazia parlamentare.

Nel passivo “cedimento alla situazione”, il Pd ha cercato di accarezzare il sentimento montante dell’antipolitica varando misure antipartito che non hanno ostacolato la forte ascesa del populismo. Se i democratici perdono 6 milioni di voti di cittadini spaesati, ammonisce Prodi, oltre a recriminare sulle ondate demagogiche che producono instabilità, dovrebbero comprendere gli effetti laceranti delle scelte di un soggetto politico che diffonde una spirale di rassegnazione perché è percepito come il “partito dei continui compromessi”. La malattia del Pd è quella di essersi arreso dinanzi al primato delle “circostanze” abbracciando obiettivi di breve raggio, volti alla mera governabilità e alla tenuta statica del sistema di potere.

La parte politicamente più dirompente del discorso di Prodi è di sicuro quella in cui si sofferma con una certa sofferenza sugli orizzonti di “un’Europa sbandata”. Dinanzi al conflitto in Ucraina, che disegna per i 27 paesi una “alleanza senza politica unitaria”, affiora un continente afono, privo di ogni rilevanza e margine di indipendenza. Lo scenario a dir poco inquietante di “alleati che non contano nulla” deve essere rifiutato. La terza via prospettata da Prodi tratteggia un’alternativa all’impossibile Europa-potenza e alla deprimente Europa-vassallo.

La lunga guerra di attrito svela la presenza di una condizione scivolosa, che imporrebbe di imboccare la via per rendere l’Ue un “alleato fedele ma capace di elaborare una politica unitaria per difendere i propri obiettivi e i propri interessi”. L’eclissi dell’autonomia strategica della vecchia Europa ha conseguenze catastrofiche che alimentano i nuovi post-fascismi trionfanti sotto le simbologie sovraniste. I miopi piani americani, cui l’Ue si è accodata in maniera subalterna, conducono alla costruzione di un disordine globale accentuato da un bipolarismo dissolutivo e assai pericoloso, che pare ben lontano dall’antico equilibrio del terrore. Prodi è sarcastico sulla lucidità dei progetti adottati dalle potenze occidentali: “far unire Cina e Russia è una cosa fessa”.

L’assunzione del celeste impero come nuovo nemico pubblico, che minaccia nell’immediato la sopravvivenza delle liberaldemocrazie, è respinta da Prodi. Egli rimprovera alla novella vocazione imperiale di Washington di trascurare le oscillazioni visibili tra Mosca e Pechino, e rimarca che “i cinesi sono come i nostri siciliani, quando stanno zitti dissentono”. La chiusura occidentale in un’angusta inclinazione bellica (si infiacchisce la Russia per allenarsi ad infilzare al più presto la Cina) restringe le opportunità di cooperazione, integrazione. Avverte Prodi che “quando incontravo i leader cinesi c’era rispetto e ammirazione per la democrazia”. Ora, con le nuove dinamiche di potere, la Repubblica Popolare vede con angoscia l’Occidente, il cui asserragliamento coglie come una sfida che marcia verso il gran duello finale tra società aperta e dispotismo orientale.

Ha fatto bene Bonaccini, cedendo il microfono al fondatore dell’Ulivo, ad esclamare con vigore: “dopo di te non ha vinto nessuno”. Se le ovazioni riservate dalla platea alla lectio del Professore sulla “origine e causa del declino” hanno un senso, allora (non solo) la minoranza dovrebbe raccogliere per intero le implicazioni operative dell’analisi tracciata da Prodi. Le sue parole indicano le coordinate di un altro progetto politico e sprigionano una coerente sfida programmatica. È percepibile un pungolo alla leadership di “un partito rassegnato” che sui grandi temi del protagonismo europeo, della pace, dello sviluppo del paese non ha ancora realizzato alcuna svolta rilevante.

Se però non si coglie che un seme potente dell’ascesa delle temibili pulsioni reazionarie è rappresentato proprio dai venti di guerra che annichiliscono ogni spazio autonomo e di mediazione del vecchio continente, rimane solo la grammatica che insiste sui diritti senza smuovere i rapporti di forza. La mancanza di una politica di negoziato è il terreno migliore per il sovranismo della destra radicale, che con la sua espansione decreta la mesta finis Europae.