25 luglio 1943
Chi era Dino Grandi, il gerarca fascista che fece cadere Mussolini
Fu sottosegretario agli Interni, agli Esteri e ministro ad interim. Dal 1942 era convinto che la guerra fosse perduta, iniziò così a cercare una via per scalzare il duce
Editoriali - di David Romoli
“Non so come ho fatto a contrabbandarmi per fascista durante vent’anni”, disse Dino Grandi a Galeazzo Ciano nel 1942. Il genero del duce non ne fece parola ma probabilmente lo stesso Mussolini non si faceva grandi illusioni sulla fedeltà a lui e al regime dell’uomo che, col suo odg approvato dal Gran consiglio il 25 luglio del 1943, ne avrebbe determinato la caduta.
Era nato a Mordano, in Romagna, nel 1895, figlio dell’amministratore di un latifondo e di una maestra elementare: famiglia relativamente benestante anche se il titolo nobiliare, conte di Mordano e poi anche depositario del Collare dell’Annunziata che lo rendeva “cugino del re”, arrivarono solo nel 1937. La cuginanza onorifica, comunque, non spinse mai il sovrano a fidarsi del gerarca. Il giudizio di Vittorio Emanuele era drastico: “Quell’uomo non mi soddisfa. Non è un elemento sicuro, non ha schiena e con Mussolini recita una doppia parte”. Dunque non lo mise al corrente del colpo di stato che aveva in mente e che sarebbe scattato comunque, anche senza il voto del Gran consiglio, né lo avvertì della decisione di nominare Badoglio al posto di Mussolini, scelta che spiazzò completamente Grandi sovvertendone i piani.
Studente di giurisprudenza, solidale con Mussolini quando fu cacciato dal Partito socialista per le sue posizioni interventiste, prima socialriformista poi vicino a Prezzolini, Grandi si arruolò a vent’anni tra gli alpini e fu congedato nel 1919 con un paio di medaglie. A San Sepolcro non c’era e, pur essendo un nazionalista, forse non avrebbe mai preso parte attiva alla lotta politica se nell’ottobre 1920 un gruppo di militanti di estrema sinistra non gli avesse sparato in mezzo a una strada centrale di Imola e il giorno dopo il suo studio non fosse stato attaccato e distrutto da un altro gruppo di militanti. A quel punto si iscrisse al fascio di Bologna ma ancora nel 1921 il prefetto Cesare Mori, dopo aver riassunto in un rapporto le sue confuse peripezie politiche, lo descriveva come “elemento politicamente ancora molto giovane e incerto”. Nello stesso anno fu eletto deputato ma l’elezione, come quelle di Bottai e Farinacci, fu invalidata perché troppo giovane per il Parlamento.
Anche tra i ras le sue posizioni furono oscillanti: fu uno dei capi dello squadrismo che imposero a Mussolini la fine del patto di pacificazione con i socialisti nel 1921, ma l’anno dopo fu lui a formare un effimero patto con i repubblicani guidati da Ubaldo Comandini. Si oppose alla nascita del partito milizia e per questo si dimise dalla Direzione, ma le dimissioni furono respinte, e non partecipò alla marcia su Roma. Dopo la presa del potere di Mussolini, Grandi era in realtà deciso ad abbandonare la politica, o almeno a limitare al massimo l’impegno pubblico. Lo richiamò in servizio proprio il duce, nel 1924, convinto che il profilo moderato avrebbe permesso di sfondare nell’elettorato liberale.
Grandi fu sottosegretario agli Interni e poi agli Esteri, con Mussolini ministro ad interim in entrambi i casi, e ministro degli Esteri dal 1929 al 1932. Rimase un moderato anche alla guida della politica estera e anche molto apprezzato all’estero, due elementi che convinsero il duce a metterlo alla porta con l’accusa di “essere andato a letto con Francia e Gran Bretagna”. Mussolini non si perse in spiegazioni, defenestrò il ministro, sostituendolo con sé stesso, tramite conciso biglietto: “Verrò a prendere le consegne domattina alle 8”. Grandi finì ambasciatore a Londra dal 1932 al 1939 e si spese invano per un’alleanza dell’Italia con il Regno Unito invece che con la Germania.
Tornato in Italia, Grandi diventò presidente della Camera e guardasigilli, rifiutò l’incarico di governatore della Grecia e dal 1942, convinto che la guerra fosse ormai perduta, iniziò a cercare una via per scalzare il duce e spingere l’Italia verso la pace separata. Considerava “necessario e urgente” il sacrificio di Mussolini. “Lui, la dittatura, il fascismo debbono sacrificarsi dimostrando con questo sacrificio il loro amore per la Nazione”, scrisse nel suo diario. In concreto, però, Grandi non fece nulla tranne sfogarsi a più riprese con Bottai e Ciano e affrontare il problema con il sovrano, che però non se ne fidava affatto. Fu lo sbarco degli alleati in Sicilia a offrirgli l’occasione per tentare il colpo con l’odg del 25 luglio, il cui contenuto aveva comunque già esposto preventivamente a Mussolini il 23 luglio.
Tra i gerarchi che rovesciarono Mussolini, solo Grandi e Federzoni erano del tutto consapevoli che l’obiettivo fosse la caduta del duce e del regime. Tutti gli altri si mossero confusamente o, nel caso dei più lucidi come Bottai, nella convinzione di poter salvare il regime sacrificando il suo fondatore e capo. I progetti di Grandi e Federzoni furono vanificati dal colpo di Stato ordito dal re: Grandi dovette accontentarsi di essere spedito in Spagna, il 18 agosto, con il compito di prendere contatti con gli alleati. Roosevelt mise però il veto a qualsiasi suo incarico futuro.
Grandi passò in Portogallo, visse per un po’ poveramente dando lezioni private, poi la Fiat di Valletta lo risollevò con una serie di incarichi di rappresentanza e l’ambasciatrice degli Usa Clara Boothe Luce, agguerritissima anticomunista, lo prese sotto la sua ala. Grandi si comprò una tenuta in Brasile, nei ‘60 tornò in Italia e aprì una fattoria modello, morì nel 1988 a 93 anni. La sua memoria è rimasta per sempre legata a una sola notte: quella tra il 24 e il 25 luglio 1943.