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Marco Travaglio è un contraffattore: Gabriele Cagliari non era in cella “perché rubava”

Marco Travaglio è un contraffattore: Gabriele Cagliari non era in cella “perché rubava”

Le polemiche tra giornali costituiscono un genere classico, tuttavia frequentato molto da chi li scrive e molto poco da chi li legge. Roba noiosa e perlopiù, come si dice, autoreferenziale. A volte, però, non si tratta di “cicca cicca”, “non mi hai fatto niente faccia di serpente, non mi hai fatto male faccia di maiale”, e cioè della desolante tigna tra colleghi buona a riempire una colonna altrimenti vacua.

A volte c’è sostanza: di quale pasta, è un altro discorso. Ma c’è. Vedi, per esempio, un titolo di questo quotidiano nell’edizione di qualche giorno fa: Gabriele Cagliari, mio padre, morto in cella perché non volle denunciare Craxi”. Che ti fa Marco Travaglio? Ieri, sul suo giornale (Il Fatto Quotidiano), smozzica quel titolo e, virgolettandolo, lo riporta così: “Gabriele Cagliari morto in cella perché non volle denunciare Craxi” (scompare quel “mio padre”, e cioè l’elemento che denunciava la fonte dell’affermazione: vale a dire il figlio di Cagliari, non il giornale, l’Unità, che semmai ne raccoglieva le dichiarazioni).

Il taglio da magliaro adempie a due scopi, entrambi vigliacchi. Il primo: lasciare intendere, appunto contro il vero, che l’affermazione fosse de l’Unità, mentre in realtà era del figlio intervistato. Il secondo: consentire all’articolista e contraffattore, cioè Travaglio stesso, di attenuare l’impatto della porcata immediatamente successiva, lì dove questo impudente si abbandona a scrivere che Gabriele Cagliari non è morto in carcere per quel motivo, ma “perché rubava”. Dire direttamente al figlio che il padre si è ammazzato perché era un ladro avrebbe fatto schifo lo stesso, ma almeno la sfrontatezza sarebbe stata piena: invece no, falta de huevos.

Che poi Gabriele Cagliari, raggiunto da tre ordini di custodia cautelare in carcere, due dei quali revocati (il terzo no: parere negativo del pm in partenza per le ferie), non fosse indagato per “furto”, è un dettaglio fastidiosamente incompatibile con la retorica macellaia di questo disinvolto violentatore della verità. Il quale, ne siamo certi, invocherebbe il diritto alla sintesi delle piazze del vaffanculo di cui è punto di riferimento fortissimo se qualcuno gli facesse osservare che Cagliari neppure se fosse stato condannato avrebbe meritato quella definizione, ladro: e figurarsi ricordare a Travaglio che Cagliari stava in galera e si ammazzava prima del processo, dunque quando le sue responsabilità (non per aver “rubato”) dovevano ancora essere accertate.

Il dramma è che piace un sacco questa impostazione volgarmente plebea, e irrispettosa del dovere elementare di non stuprare i diritti e la memoria delle persone. E il fatto che piaccia, che abbia tanto riscontro, racconta bene la bassezza di chi vi ricorre. Perché è ancora ammissibile ascoltare la plebe violenta, è ammissibile persino mischiarvisi: ma farsene forza, no, questo è imperdonabile.

Ed esattamente questo si fa quando si scrive che un uomo si è suicidato in carcere perché era un ladro: si stimolano le trippe della turba che reclama onestà sfilando sotto ai balconi delle procure della Repubblica, lì dove i pubblici ministeri lavorano di manette nell’attesa delle collaborazioni con il Fatto Quotidiano e delle vacanze sotto l’ombrellone con il direttore.