Passa il primo atto
Cosa sta succedendo in Israele: cosa prevede la riforma della giustizia e perché ci sono proteste in piazza
Si riaccendono le proteste. Biden invita Netanyahu alla moderazione. E persino il capo del Mossad si riserva di rendere pubbliche le sue valutazioni sul pacchetto di norme...
Esteri - di Alberto Cisterna
La Corte Suprema israeliana non potrà più annullare gli atti del governo che risultino manifestamente irragionevoli. Un sindacato di questo genere è previsto presso le Corti superiori di molti Stati (dalla Corte suprema degli Usa al Tribunale costituzionale federale tedesco) e, in Italia, anche la Consulta può censurare la legittimità di una legge che risulti contraria alla ragionevolezza imposta dall’articolo 3 della Costituzione. Si può discutere se il sindacato di ragionevolezza appartenga davvero alla giurisdizione costituzionale o se, implicitamente, non comporti una sorta di cogestione della discrezionalità politica. Ma non è questo in ballo in Israele in questo momento.
La vastità delle proteste, la circostanza che metta in discussione persino l’operatività dell’esercito israeliano, per l’annunciata protesta di migliaia di riservisti che intendono revocare la disponibilità a servire per le forze di difesa israeliane, il coinvolgimento di ampi settori della società civile, le previste serrate dei negozianti sono tutti elementi che mostrano la piena vitalità della democrazia nello Stato di Israele, ma che certo ci devono interrogare nel momento in cui l’Italia si appresta ad affrontare una scoscesa e bellicosa stagione di riforme proprio sul medesimo tema della giustizia e del controllo politico su di essa.
La differenza è lampante. La polemica e la protesta nel nostro paese si atteggia solo come una contrapposizione tra corporazioni che si preparano allo scontro e affilano le armi a propria disposizione in un circuito che tutto è tranne quello di una democrazia partecipata. Le lobbies si stanno misurando, saggiano le forze, affilano le armi, minacciano e si sentono minacciate, senza che nessuno abbia il coraggio di misurare o denunciare il pressoché totale disinteresse della pubblica opinione, di ampi strati popolari, per gli argomenti in discussione e per le soluzioni proposte. Ci si può fare a pezzi tra toghe giudiziarie e toghe professionali, tra Anm e ministero della Giustizia, tra segmenti del giornalismo garantista e di quello giustizialista, ma nessuno si attende che neppure un cittadino comune scenda in piazza per protestare contro le riforme annunciate dal ministro Nordio e spalleggiate da uno schieramento politico abbastanza trasversale o, viceversa, per sostenerle.
Tutte le battaglie, come nella caverna di Platone, hanno lo sguardo rivolto alle ombre che si agitano sul palcoscenico politico, non alla sostanza degli interessi che esse sottendono ed esprimono. E così l’immemore saggezza popolare considera lo scontro in atto e la guerra minacciata una mera lotta tra poteri, un conflitto tra centri d’interesse lontani e distanti dalla sostanza dei diritti e delle aspettative di giustizia che concretamente attendono soddisfazione nella società civile. E mentre in Israele persino gli Stati uniti intervengono per invitare la maggioranza di Benjamin Netanyahu alla moderazione e finanche il capo del potente Mossad si riserva di rendere pubbliche le proprie valutazioni sulle riforme in materia di giustizia, in Italia tutti i protagonisti “professionali” della partita giocano a rendersi arbitri e punti di raccordo per smorzare i toni e cercare un compromesso, volendo evitare di trovarsi troppo esposti al fuoco nemico.
Quasi che tutto si debba risolvere nelle solite alchimie e nei mefitici equilibrismi che proiettano in un unico palcoscenico una politica incapace di lanciare il dado della sfida e una magistratura compatta e determinata nel reagire a qualunque costo, anche a rischio di fare apparire come strumentali e ritorsive le più legittime indagini e i più inevitabili processi. Da troppo tempo ormai la questione della giustizia – non le sfilate celebrative e gli sfarzi commemorativi di un passato travolto dal cinismo del “Sistema” – è riserva esclusiva di un confronto a volte duro, a volte ammiccante, sempre pronto alla cedevolezza e al compromesso tra blocchi corporativi, senza che i cittadini, i reali destinatari del servizio giustizia si sentano davvero coinvolti nella mischia o interessati alle sorti della battaglia.
Un tema avvertito come cruciale dalle lobbies, ossia la separazione delle carriere, non desta alcun interesse nella pubblica opinione che – nella disperazione dei ritardi della giustizia civile e nella preoccupazione per le aggressioni mediatiche delle indagini penali – alla fine non assegna alcun valore alla tanto declamata collocazione costituzionale del pubblico ministero. Lo stato di degrado del servizio giustizia, pur con lodevoli eccezioni, è tale per cui non assume alcun rilievo pratico ed effettivo stabilire se la procura della Repubblica debba rispondere o meno al ministro di via Arenula. Si è talmente rarefatta la densità costituzionale, e quindi assiologica, degli interessi in gioco che nessuna piazza sarà mai riempita innanzi a un progetto di riforma costituzionale che modifichi profondamente questo o altri assetti del sistema ordinamentale italiano.
L’estrazione a sorte dei componenti togati del Csm, ancora, non è neppure proponibile come tema capace di catalizzare o anche solo attizzare l’interesse dell’opinione pubblica nazionale. Appare – o forse purtroppo è – un duello tra una corporazione di sommi sacerdoti che preservano i riti del tempio che li ospita e un ceto politico che ne subisce il controllo e, talvolta, ne patisce (a ragione spesso) il duro callo e che nelle stanze del tempio vuole entrare anche a costo di profanarlo. Da questo punto di vista non si tratterebbe, né per l’una né per l’altra delle fazioni, di rincorrere un impossibile consenso popolare sulle proprie posizioni, quanto di riposizionare il dialogo sul nucleo centrale degli interessi sociali e individuali che sono in gioco nel processo penale e civile.
Solo un sistema efficiente e serio può essere difeso dai cittadini e le piazze di Israele lo dimostrano apertamente; dove efficienza e serietà manchino politiche spregiudicate e audaci dovrebbero avere mano libera. Ma noi amiamo la guerra di trincea; in fondo anche chi ha i numeri per vincere ha timore nel farlo, non perché teme le piazze con le bandiere o la protesta di un popolo, ma perché assume la postura di chi, da qualche parte, ha uno scheletro da tenere celato negli armadi o qualche amico e parente troppo ingombrante.