Il caso della ministra
Daniela Santanché resta ministro e diventa un impiccio per il governo Meloni
Se l’indagine sulla titolare del dicastero del Turismo porterà a un rinvio a giudizio la premier si ritroverà alle prese con una scelta ardua
Politica - di David Romoli
“Che bellissima giornata!”, commenta Daniela Santanchè dopo aver incassato una facile ma effimera vittoria al Senato. La mozione di sfiducia contro di lei è stata votata e respinta come era certissimo sin dalla vigilia: 111 voti contrari alla sfiducia contro 67, mentre i senatori di Azione-Italia viva non hanno partecipato al voto. Ha disertato il voto, “per ragioni di opportunità” anche la diretta interessata e Calenda si sfoga: “Questa bellissima giornata gliela hanno regalata i 5S”.
Daniela Santanchè, in realtà, di motivi di tripudio ne ha ben pochi. Resta ministra ma nessuno al governo e nella maggioranza si illude che il caso sia chiuso. L’esito del voto era scontato: proprio per questo il Pd avrebbe preferito evitare l’azzardo e Italia viva si attaccata all’alibi di una mozione che “ricompatta la maggioranza” per sottrarsi al voto evitando così di turbare la marcia di avvicinamento al centrodestra nella quale Renzi è al momento impegnatissimo. Ma il 5S Patuanelli ha ricordato tutte le mozioni di sfiducia individuale respinte nella scorsa legislatura e seguite però poco dopo dalla crisi di governo: “Si vede che il ricompattamento non porta bene”.
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In realtà il voto di ieri non rafforza la posizione di Daniela Santanchè, ministra comunque più di là che di qua, e non facilita il compito della premier, che resta molto difficile. La ministra, nonostante l’intera maggioranza avesse provato a fermarla, ha deciso ieri di intervenire e ha ulteriormente peggiorato la situazione e la sua immagine. Un intervento breve, a differenza del 5 luglio, nel quale ha ripetuto di non aver mai mentito, tesi difficilmente sostenibile date le quantità di omissioni, verità addomesticate e giochi di prestigio, che hanno costellato la sua autodifesa. Ha insistito sul fatto che tutte le accuse riguardano la sua attività di imprenditrice, non di ministra, e sono antecedenti al conferimento dell’incarico: “Ho difficoltà a comprendere una mozione di sfiducia individuale che non ha come oggetto il mio operato da ministro, e che ha come oggetto fatti antecedenti il mio giuramento da ministro e per i quali ritengo già di aver chiarito in quest’aula tutta la verità”.
Come linea di difesa non è solo debole: è inconsistente e non migliora di una virgola lo stato di un’immagine devastata, che inevitabilmente si riflette anche sulla premier che si è trovata più o meno costretta a difenderla. Se l’inchiesta finirà in archviazione il problema sarà risolto, ma lo sarebbe stato in egual misura con o senza la mozione respinta. Se invece porterà al rinvio a giudizio la premier si troverà alle prese con una scelta ardua resa in realtà anche più difficile dal dibattito di ieri. La sua propensione al momento è quella di imporre le dimissioni in caso di rinvio a giudizio. Soprattutto la capogruppo di Fi Ronzulli ha martellato ieri sull’obbligo di considerare chiunque innocente sino alla condanna definitiva non solo sul piano penale ma anche su quello politico.
Messo all’angolo sul fronte della riforma della giustizia, ormai quasi una chimera, Fi sa di avere con il caso Santanchè un’occasione d’oro per mettere sotto scacco la premier con una levata di scudi “garantista” a difesa di una ministra che viene non dal partito di Arcore ma proprio da quello della presidente del consiglio. Altrettanto evidentemente la Lega, che ieri si è prodotta col capogruppo Romeo in una debolissima difesa quasi d’ufficio, ha tutte le intenzioni di lasciare la spinosa gatta da pelare solo nelle mani di Giorgia Meloni. Salvini lo dice chiaramente e va da sé che l’obiettivo sia costringere la presidente a fare una scelta comunque rischiosa, per un verso o per l’altro.
Se scaricherà la ministra dopo l’eventuale rinvio a giudizio, il passo indietro suonerà a questo punto come una sua sconfitta. Se insisterà nel difenderla e confermarla ministra pagherà il prezzo di una ferita sempre aperta e che riprenderà a sanguinare a ogni passo avanti del percorso giudiziario. Senza archiviazione, insomma la premier si troverà di fronte a un dilemma, per la gioia dei leghisti che proprio a questo risultato ambivano, e come deciderà di risolverlo avrà implicazioni destinata ad andare molto oltre lo specifico e spinoso caso.