Sessanta giorni di sospensiva, poi se ne riparla. Alla fine della discussione generale sulla proposta di salario minimo, alla Camera, il capogruppo di FdI Foti annuncia di aver presentato la richiesta “non per buttare la palla chissà dove” ma per “poter avere lo stesso tempo che avete avuto voi per formulare una proposta unitaria”. Il capo dei deputati FdI ricorda, con toni un po’ da “aula sorda e grigia” che la maggioranza avrebbe potuto risolvere la questione “di pancia”, con l’emendamento abrogativo in commissione: “Nessuno lo impediva” e se la destra non lo ha fatto è stato per “una questione di rispetto”.
Più che di rispetto ha pesato la comprensibile paura della premier di addossarsi la responsabilità di affondare un provvedimento popolare anche tra gli elettori di destra e comunque evidentemente necessario. “Per la prima volta Meloni è costretta a inseguire le opposizioni”, dichiara in un’intervista Scotto, capogruppo Pd in commissione Lavoro, ed è proprio così. L’opposizione protesta rumorosamente contro la sospensione. “Ma a che gioco stiamo giocando?”, sbotta la vicepresidente del Pd Gribaudo mentre Conte ironizza: “La richiesta di rinvio è una melina. La Meloni da un lato dice di voler dialogare, dall’altro definisce la proposta ‘uno slogan’. Se la premier invita le opposizioni a un confronto non ci sottrarremo anche se il luogo deputato era la commissione”.
In realtà tutta l’opposizione sa benissimo che la richiesta di sospensiva e la retromarcia sull’emendamento soppressivo, sul quale sino a pochi giorni fa nessuno nella destra avanzava dubbi, sono una vittoria. La destra non ha una sua proposta perché era convinta di poter liquidare quella dell’opposizione senza pagare alcun dazio e quando si è resa conto di una situazione ben diversa, anzi opposta, era troppo tardi per inventarsi una strada diversa da quella del salario minimo per intervenire su un nodo non più eludibile come quello dei salari troppo bassi. La vittoria in questa mano non significa che la partita sia vinta e neppure vicina a essere vinta.
Giorgia Meloni sul salario minimo non ha alcuna intenzione di cedere. Da un lato si è esposta troppo bocciandolo a più riprese con toni definitivi, dall’altro la bandiera è ormai troppo connotata per dare partita vinta agli avversari. A settembre la maggioranza si presenterà con un suo marchingegno e si tratterà di vedere quanto sarà disposta, o costretta, a trattare. Quella proposta, al momento, ancora non c’è anche se proprio Foti assicura invece di averla già in tasca anche se “con le coperture ancora da verificare”. Potrebbe trattarsi di un testo in larga misura ricalcato sulla proposta avanzata dall’allora ministro del Lavoro Orlando, sinistra Pd, nella scorsa legislatura: un espediente che renderebbe certamente meno facile al Nazareno rifiutare in partenza quel terreno di trattativa.
Se fosse davvero quella l’ipotesi su cui lavora la destra, invece che di salari si tratterebbe di contratti, o meglio di estensione della contrattazione collettiva sia ai settori che di contrattazione sono privi sia a quelli dove, grazie alla presenza di sigle sindacali minori, vigono i “contratti pirata”, quasi sempre al di sotto della soglia fissata dal contratto nazionale. “Se si cercano palliativi al salario minimo noi non ci saremo”, ha già messo le mani avanti Conte. La partita, in settembre, inevitabilmente assumerà connotati diversi. La proposta sulla contrattazione, se ci sarà davvero, amplificherà il ruolo dei sindacati, puntando a dividere la Cisl, contraria al salario minimo, da una Cgil convertitasi all’ultimo momento più per forza che per amore.
Nella maggioranza Calenda tenterà di forzare per spingere Elly Schlein verso la mediazione, coadiuvato probabilmente dalla minoranza interna del Pd. Conte punterà i piedi sul versante opposto: non ha gradito affatto lo “scippo” della bandiera del salario minimo, proposta 5S che di cui la segretaria del Pd è riuscita a impossessarsi, e non vede l’ora di riprendersela. La carta sulla quale punta la premier per capovolgere l’esito di uno scontro che per ora la ha vista perdente sono proprio le divisioni all’interno del fronte opposto. Stare al suo gioco sarebbe folle, ma il rischio innegabilmente c’è.