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Garante nazionale dei detenuti: come viene scelto e da chi

Garante nazionale dei detenuti: come viene scelto e da chi

Caro Direttore, consentimi un’appendice al tuo corrosivo commento e al dettagliato articolo di Angela Stella, entrambi pubblicati su l’Unità del 26 luglio, a proposito della designazione governativa dei tre candidati all’Ufficio nazionale del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale.

1. Le notizie – confermate dal silenzio-assenso di via Arenula – riferiscono che il Guardasigilli ha preannunciato al Capo dello Stato una terna composta da due professori universitari in materie giuridiche e da un anziano presidente a riposo di tribunale di sorveglianza. Di questa proposta evidenziate le molte criticità. In ordine sparso: il deficit, nei due docenti di diritto privato e di diritto privato comparato, di un bagaglio culturale specifico e idoneo all’incarico.

L’appartenenza politica dei tre candidati all’area di governo. L’assenza di un’equilibrata rappresentanza di genere. Il tentativo di depotenziare il collegio, incarnandolo in modo inadeguato ai suoi cruciali compiti istituzionali. Traduco? Incompetenza, lottizzazione, maschilismo, neutralizzazione di un organo di garanzia. Se così è, il problema cessa di essere solo politico e acquista spessore giuridico-costituzionale: è il piano su cui vorrei sviluppare la mia riflessione.

2. La legge istitutiva dell’Ufficio del Garante (art. 7, decreto-legge n. 146 del 2013, conv. in legge n. 10 del 2014) descrive un procedimento per la scelta dei componenti del collegio che non eleva il Governo (e il suo ministro di Giustizia) a dominus della relativa decisione. Certamente l’impulso iniziale è del Consiglio dei ministri, chiamato a deliberare i tre nominativi. Quell’indicazione, però, va integrata attraverso due successivi passaggi: l’acquisizione del parere delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato; il decreto di nomina del Quirinale. Né l’uno né l’altro sono tornanti meramente formali: servono ad accertare il rispetto dei requisiti che la legge richiede ai soggetti candidati.

La scelta, infatti, deve cadere su «persone, non dipendenti delle pubbliche amministrazioni, che assicurano indipendenza e competenza nelle discipline afferenti la tutela dei diritti umani». L’assenza di un rapporto in atto di pubblico impiego è requisito preliminare alla selezione, non una condizione che può essere soddisfatta ex post, a nomina avvenuta: già questa è una causa ostativa – ad esempio – per la designazione governativa di un docente universitario in servizio. Quanto agli altri due requisiti, la loro verifica impone un adeguato supplemento d’indagine.

L’«indipendenza» richiesta dovrebbe emergere dalle biografie personali, da mettere in relazione anche al rigido regime di incompatibilità previsto dalla legge, secondo cui «i componenti del Garante nazionale non possono ricoprire cariche istituzionali, anche elettive, ovvero incarichi in partiti politici». La presupposta «competenza» dovrebbe essere attestata da quanto già detto, già scritto, già fatto dal candidato nell’area specifica della tutela dei diritti umani (e non, genericamente, in ambito giuridico): è un sapere teorico e pratico che deve essere maturato in precedenza, non durante l’esercizio dell’eventuale mandato.

3. Proprio a questi accertamenti andrebbe dedicato il passaggio parlamentare, eventualmente anche attraverso un’audizione dei componenti della terna deliberata dal Governo. Pur non vincolante, il parere delle Commissioni competenti può certamente offrire elementi utili alla valutazione del Capo dello Stato, cui spetta la nomina dei membri del collegio.

È già accaduto in passato, alla prima attivazione dell’Ufficio del Garante nazionale. Allora, il mancato gradimento parlamentare fece cadere uno dei tre nomi originariamente indicati dal Governo: il Quirinale, per questo, emanò un primo decreto di nomina di due membri del collegio (il professor Mauro Palma e l’avvocata Emilia Rossi) per procedere solo in un successivo momento a quella del terzo componente (la giornalista Daniela De Robert), all’esito di una rinnovata procedura e con autonomo decreto presidenziale di nomina.

4. Sulla natura giuridica di tali decreti del Quirinale, infatti, è bene non equivocare. La regola costituzionale che – mediante la controfirma ministeriale – fa degli atti presidenziali l’involucro formale di decisioni assunte concretamente dal Governo, vale esclusivamente se quei decreti veicolano scelte politiche spettanti all’Esecutivo. Li firma il Capo dello Stato, ma li decide il Ministro proponente che se ne assume la responsabilità (art. 89, 1° comma, Cost.). Ma non è questo il caso. Nella nomina dei componenti del Garante nazionale, infatti, non si esprime l’indirizzo politico governativo, perché l’atto riguarda la composizione di un collegio che non è né può essere organico al Governo da cui, anzi, è indipendente sul piano giuridico, funzionale, strutturale. Facile è darne dimostrazione.

5. Giuridicamente, l’istituzione del Garante nazionale adempie a un obbligo internazionale imposto dalla Convenzione ONU contro la tortura e altre pene inumani e degradanti (art. 3 del relativo Protocollo opzionale, ratificato con legge n. 195 del 2012). È un obbligo che impone allo Stato italiano la costituzione (e il mantenimento) di un meccanismo nazionale indipendente, deputato a vigilare sulla custodia delle persone comunque ristrette, affinché la limitazione della libertà personale sia attuata in conformità alle norme nazionali e alle convenzioni internazionali sui diritti umani di cui l’Italia è parte. Ragione – per incidens – che renderebbe illegittima (per violazione dell’art. 117, 1° comma, Cost.) la sua abrogazione.

Sotto il profilo funzionale, quindi, il Garante nazionale è chiamato primariamente a controllare l’uso della forza legittima esercitata dagli apparati statali, che proprio nel Governo hanno il loro organo di vertice. Va dunque evitata una qualsiasi osmosi tra controllore e controllato. Operativamente, è vero che il controllore nasce da una costola del controllato, avvalendosi di strutture, risorse, personale, messe a disposizione dal ministero di Giustizia. Tuttavia, il Garante nazionale vive poi di vita autonoma: è il codice di autoregolamentazione di cui si è dotato (delibera del 31 marzo 2021) a stabilire i principi-guida della sua attività, improntandola all’assoluta indipendenza e all’assenza di qualunque interferenza.

6. Se così è, il Quirinale ha voce in capitolo, rispetto alle scelte espresse dal Governo e vagliate dalle Camere. La sua non è una dovuta presa d’atto. Nella sua duplice veste di organo super partes estraneo al circuito dell’indirizzo politico governativo e di garante degli impegni internazionali assunti dallo Stato italiano, il Presidente della Repubblica ha un compito preciso: apprezzare in modo imparziale la sussistenza in concreto dei presupposti che giustificano l’adozione del decreto di nomina. In assenza di quei presupposti, deve negare la firma necessaria a perfezionare il suo provvedimento finale.

7. La morale è presto tratta. La regola dello spoil system non si addice agli organi di garanzia, dunque nemmeno all’Ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. È altra la logica da seguire, tracciata nella legge istitutiva.
La nomina del relativo collegio, infatti, deve scaturire da un concerto tra Governo, Parlamento e Capo dello Stato secondo uno spartito la cui chiave è il principio costituzionale di leale collaborazione tra poteri. Se qualcuno stona o pretende il ruolo di solista, il procedimento è destinato a incepparsi.

A meno che, davanti a un Esecutivo che batte il pugno sul tavolo, le Commissioni parlamentari competenti scelgano un omissivo e acquiescente silenzio e il Quirinale rinunci ad esercitare le proprie prerogative. Se questo si rivelerà davvero il finale di partita, avremo un Garante nazionale ridotto a esoscheletro. Sarebbe una grave responsabilità collettiva, non solo di un tremebondo Guardasigilli sempre più irriconoscibile a sé stesso.