Il poeta e la Fgci
Storia di ‘Salò o le 120 giornate di Sodoma’, l’ultimo film di Pier Paolò Pasolini
Era come se il poeta avesse voluto giustificarsi con noi, mettere le mani avanti, per il timore di deluderci. Questo aveva ulteriormente accresciuto il desiderio di vedere presto la sua ultima opera. E soprattutto di indovinare, e poi averne conferma da lui, la scena a noi dedicata.
Editoriali - di Goffredo Bettini
Nel settembre del ’75 alla festa della Fgci, questa volta da svolgere sulla splendida terrazza del Pincio, decidemmo di invitare di nuovo Pasolini. L’occasione sarebbe stata una discussione insieme a Luigi Cancrini sulla droga. Ormai il rapporto con il poeta si era sciolto. Vi era fiducia reciproca e rimaneva molto forte in noi la gratitudine per le sue splendide parole, che sentivamo persino esagerate, sulla nostra funzione e sulla nostra realtà. La mia personale relazione con Pasolini si era sviluppata, tuttavia, sempre in incontri “ufficiali”.
Per discutere dei temi più cruciali del momento o per programmare iniziative comuni. Non partecipavo, allora, alla sua vita privata, con quel gruppo straordinario di amiche e di amici che lo ha accompagnato fino alla fine. Tra gli altri, Laura Betti, Alberto Moravia, Franco e Sergio Citti, Ninetto Davoli, Dario Bellezza e Dacia Maraini, autrice del recente “Caro Pier Paolo”; un libro struggente e sincero sul poeta. In vista del programmato dibattito pubblico, lo andai a trovare nella casa dell’Eur. Non fu lunga la parte dell’incontro dedicata alla politica. Piuttosto, ci intrattenemmo su vari aspetti delle sue uscite pubbliche, in particolare sul “Corriere della Sera”. Sul suo comunismo.
Così deluso dall’esperienza dell’Unione Sovietica, della Cina, ed anche, infine, di Cuba. L’orizzonte della rivoluzione gli sembrava definitivamente scomparso. Ripeté un concetto che già aveva precedentemente espresso: a voi tocca ancora sperare. Per me l’idea di società nella quale desideravo e desidero vivere rimane un’utopia. Sarà anche una questione di età. D’altra parte sono diventato comunista, perché sono un conservatore. Anni dopo, ripensando a queste parole, compresi meglio anche la frase così profonda e lapidaria di Enrico Berlinguer: “Dobbiamo essere rivoluzionari e conservatori”.
Vale a dire: conservare il meglio della tradizione a fronte di una innovazione spinta dai processi in atto, funzionale al mantenimento dell’assetto borghese e del capitalismo. Nell’incontro sentii accentuato, in Pasolini, un certo pessimismo. Un orrido fastidio, persino fisico, nei confronti delle mode e delle forme che la società italiana stava rapidamente acquisendo. Quando mi accompagnò alla porta, sostammo sull’uscio. E, all’improvviso, mi volle parlare di “Salò”. Il film che avrebbe girato durante l’estate. Mi disse: “Goffredo, farò un film terribile. Davvero terribile”. Aggiunse: “Sono sicuro che non vi piacerà. Eppure, vi ho dedicato un’immagine, ma non ti dico quale, la dovrete indovinare”. E come se la indovinammo! Ma su questo tornerò.
A settembre la platea di giovani ad ascoltare Pasolini era dieci volte più grande dell’anno precedente. Ancora tutti a sedere, in diecimila, in una sera splendida del settembre romano. Silenzio e partecipazione. Si pesavano le parole. E ognuno era predisposto all’ascolto. Alla fine mi sembravano tutti davvero contenti. Anche le compagne e i compagni che avevano seguito dagli stand allestiti un po’ più lontano, venuti in massa a salutare l’ospite d’onore. Per altro, il moderatore del confronto era stato Antonio Semerari. Oggi grande psichiatra, mio inseparabile amico, con una vita piena di prove dolorose, con una prodigiosa intelligenza. Per tante ragioni, pur volendoci ancora molto bene, me lo sono perso nel corso della vita. Per mia sola responsabilità.
Tornando a Pasolini: di fatto quella fu l’ultima occasione nella quale lo vidi vivo. Fino al 2 novembre, la data della sua morte, non ci furono altri incontri. Ripensavo, intanto, in quelle settimane al discorso che mi aveva fatto sul suo film “Salò”, ormai nella fase finale della lavorazione. Era come se il poeta avesse voluto giustificarsi con noi, mettere le mani avanti, per il timore di deluderci. Questo aveva ulteriormente accresciuto il desiderio di vedere presto la sua ultima opera. E soprattutto di indovinare, e poi averne conferma da lui, la scena a noi dedicata.
Purtroppo, non fu così. La notizia della morte mi arrivò come una fucilata. Mi sembrava impossibile che quell’uomo straordinario, che avevo conosciuto e che ci aveva così influenzato, fosse stato trucidato. In una landa desolata dell’idroscalo di Ostia. Nella solitudine più totale. Aggredito con modalità che sembravano già da subito oscure, e che tali sono rimaste fino ad oggi. La famiglia chiese a noi di organizzare i funerali. A Campo de’ Fiori. Si incaricò la federazione del partito di svolgere questo compito. Mentre il nostro segretario Gianni Borgna fu invitato a parlare. Gianni era emozionantissimo e gratificato. Seppure soffrendo un grande dolore. Come spesso facevamo, andammo a preparare il suo discorso, insieme, a casa di mia madre, dietro il Ministero della Giustizia a via di Santa Maria in Monticelli.
Questa volta, Gianni sentiva dentro con tale chiarezza le cose da dire, che compose in solitudine due cartelle, densissime e ispirate. Scrisse: “Pier Paolo è morto […] che fosse un grande poeta oggi sono costretti a riconoscerlo anche i suoi oppositori più ottusi [..] che fosse un uomo veramente buono, candido e aspro come lo abbiamo ancora davanti agli occhi, è invece giusto qui dirlo […] con noi, giovani comunisti, aveva stabilito un dialogo ininterrotto […]e noi gli abbiamo parlato della crisi profonda, politica ma soprattutto morale […] aveva detto che la rivoluzione non è più che un sentimento, però ne sentiva fortissima l’urgenza […] come nella storia di “Alì dagli occhi azzurri”, con le bandiere rosse che vanno verso l’ovest e il nord”.
Campo de’ Fiori era stracolma di popolo. C’erano tantissimi intellettuali, amici, giornalisti, registi e scrittori. C’era soprattutto il popolo di Roma. Una massa ondeggiante, che accompagnava il feretro verso il palco. Era una scena surreale. In piena sintonia con la presenza di Gianni e del sottoscritto. Ci capitavano spesso, infatti, episodi, anche nella tragedia, grotteschi, fuori contesto, teatrali. Infatti, il servizio d’ordine del Pci che cercava di disciplinare la situazione era guidato da Ughetto; un gigante buono, totalmente miope, fortissimo e coraggioso, popolano nell’animo e nei comportamenti. Ughetto, a un certo punto, si inalberò. Le persone stavano esagerando, pressavano troppo, toglievano il respiro agli anziani e ai bambini.
Ughetto si trasformò: con parole che non ammettevano replica e strattonando qualche intellettuale, urlò: “Non avete capito? Non volete capire? Io la bara la voglio qui!” Indicando un luogo, secondo lui adatto, per poggiare la salma del poeta. Ci fu un attimo di sorpresa e preoccupato silenzio. Irruppe, in un momento di alto cordoglio, che avrebbe dovuto permettere solo manifestazioni di dolore, l’“ordine di partito” (immediatamente eseguito) con l’accento popolare e i modi sfrontati, di quel popolo romano che Pasolini tanto amava.
Ormai sepolto il suo corpo, ci sentimmo davvero orfani. Non lo dico per retorica. Fu questo davvero il sentimento prevalente nella nostra comunità politica.
Finito “Salò”, concordammo con la famiglia e la produzione, di organizzare un’anteprima. Soprattutto per i dirigenti del Pci. Era anche la prima volta che noi stessi lo avremmo potuto vedere per intero. La proiezione, mi pare, si svolse in una sala vicino a Santa Maria Maggiore. Selezionammo gli inviti con cura. Vedere “Salò” fu il completamento di un discorso che Pasolini progressivamente ci aveva voluto trasmettere. Rinnegata ormai la “Trilogia della vita”, che già nell’ultima opera “Il fiore delle mille e una notte” presagiva un sentimento di morte, il regista aveva portato allo stremo le conseguenze del suo rifiuto della società mercificata. In “Salò” i corpi diventavano essi stessi solo merce. Da consumare, torturare e sbrindellare. Il richiamo alla Repubblica sociale, in verità, fu più un espediente che un riferimento storico. Era l’oggi che bruciava. Nel girone della “merda” dell’inferno dantesco-pasoliniano, l’invettiva si presentò in tutta la sua disgustosa verità.
Il consumo, il fanatismo dell’appropriazione degli oggetti, i beni di un mondo falso, artefatto, violento, si impastavano ed erano essi stessi escrementi. Le regole che gli aguzzini imponevano seguivano una geometria astratta e paranoica. Gratuitamente persecutoria. Il potere assoluto, la dittatura su ogni cosa, nell’imprevedibilità delle punizioni, rappresentava la più concentrata forma di anarchia. L’anarchia di una volontà senza limiti. Priva di coscienza e di responsabilità.
Appena riaccese le luci di sala, mi guardai intorno per vedere le reazioni. Difficile dire. Sicuramente contrastanti, ma dette a mezza bocca, con sobrietà e rispetto; anche, con un po’ di reticenza. Andai da Ingrao per chiedere il suo parere. Mi sorprese per la sua nettezza: “È un film importante. Forte e bello”. Ero contento di ritrovarmi d’accordo con lui. “Salò”, secondo me, ha la perfezione di un diamante trasparente. Le scene finali sono viste da un cannocchiale alla rovescia. Per marcare una distanza e attutire l’effetto delle torture. Ma nello stesso tempo c’è un invito a guardare: “Guarda, guarda” dice uno degli aguzzini. Sì: guardare la realtà. Farsene carico, persino con il proprio corpo. Pasolini in un’occasione aveva quasi urlato: “Io il fascismo l’ho vissuto sul mio corpo”.
Subito dopo, con gli amici del gruppo dirigente della Fgci, ci interrogammo sulla scena che il poeta aveva voluto indirizzare a noi. Fu facile concordare: era il momento nel quale la catena delle delazioni da vittima a vittima si interrompe. Si interrompe la corruzione e l’accondiscendenza dei prigionieri. All’irruzione di un gruppo di militi repubblichini, un ragazzo che fa l’amore con una giovane di colore (entrambi completamente nudi), si erge, di fronte alle baionette pronte a sparare, offre il suo corpo al martirio, alzando il pugno chiuso. È la discontinuità nella continuità. È la speranza nel dolore. È l’affermazione della dimensione umana contro il gelido meccanismo degli assassini.
FINE SECONDA PUNTATA / continua.
(La prima puntata è uscita ieri. La prossima puntata uscirà sull’Unità di martedì)