X

Misure di prevenzione: l’Italia finisce davanti alla Cedu

Misure di prevenzione: l’Italia finisce davanti alla Cedu

La prima sezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha dichiarato ammessa la causa promossa dai fratelli Cavallotti contro la Repubblica italiana. Gli imprenditori siciliani sono stati al centro di una singolare vicenda processuale che li ha visti, prima, assolti in sede penale dal reato di associazione mafiosa e, poi, destinatari di un provvedimento di confisca dei rispettivi patrimoni personali, emesso nel 2011 dal Tribunale di Palermo, durante la “chiacchierata” presidenza di Silvana Saguto, recentemente condannata dalla Corte d’appello di Caltanissetta per la gestione illegale dei beni sequestrati e confiscati alla mafia.

“Quella dei Cavallotti è la madre di tutte le confische”, diceva la stessa Saguto in una delle conversazioni intercettate. In effetti, per l’importanza delle questioni giuridiche, il caso Cavallotti è adesso il “punto di svolta” del sistema italiano di contrasto all’arricchimento illecito. I fratelli Cavallotti, Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo, attivi nel settore della metanizzazione in Sicilia nella metà degli anni 90, furono arrestati perché ritenuti associati a Cosa Nostra. Secondo i ROS di Palermo gli stessi avevano intrattenuto rapporti di affari con il sodalizio criminale per ripartirsi gli appalti pubblici. Ma, con sentenza della Corte di Appello di Palermo, gli stessi venivano definitivamente assolti: non v’era l’ipotizzato “patto sinallagmatico” con Cosa Nostra, al contrario si accertava lo stato di soggezione alle vessazioni mafiose.

La confisca di prevenzione, è noto, viaggia su un binario parallelo al processo penale, al di fuori delle regole del “giusto processo” presidiate dalla Costituzione per l’accertamento penale. Una vera e propria “dimensione spirituale”, dove non c’è un fatto da accertare e/o una colpa da addebitare. Una misura non sanzionatoria, ancorché afflittiva per la perdita definitiva del patrimonio, dunque estranea alla “materia penale”, un tertium genus, di chiara matrice autoctona, anticipatrice di un nuovo e ambizioso corso penale, la confisca senza condanna. Così, per i giudici della prevenzione le imprese dei Cavallotti erano cresciute grazie all’appoggio della mafia nella spartizione degli appalti pubblici, sotto l’egida di Cosa Nostra. Un vero proprio ossimoro giuridico. In effetti, la confisca di prevenzione è una storia di contraddizioni giuridiche, che si è sempre mossa sull’onda emotiva della legislazione emergenziale dell’ormai “atavica” lotta alla criminalità mafiosa.

Il codice antimafia del 2011, che ha messo ordine alla frammentaria legislazione in materia, prevede una specifica fattispecie di pericolosità sociale – l’appartenenza all’associazione mafiosa – concetto diverso dalla partecipazione prevista dall’art. 416 bis del codice penale. La semantica non è di facile intelligibilità logica, nel senso che si può appartenere alla mafia senza farne parte. Così, immane è stato lo sforzo della giurisprudenza italiana nel cercare di dare un contenuto uniforme alla norma che non valicasse il limite dell’arbitrio e del pudore intellettuale.

Risultati eccezionali sul piano “quantitativo”, ma con effetti devastanti sul piano dei diritti delle persone, senza contare i negativi effetti macroeconomici della pessima gestione pubblica. Gli appartenenti alla mafia sono i “nuovi dannati”, difficilmente collocabili in alcuno dei gironi dell’Inferno di Dante, molto spesso colpevoli di nulla, assolti in sede penale ma contigui o vicini alla mafia. Evidente il rischio di trasmodare nella mera “prevenzione culturale”.

Una spirale di presunzioni, espressione di un paradigma giuridico fascista, fondato sulla presunzione di colpevolezza, un terreno estraneo al diritto, coltivato con il pre-giudizio ambientale e con dati empirici di creazione giurisprudenziale. Ora, la Corte Europea vuole vederci chiaro. Nei giorni scorsi la cancelleria della prima sezione ha chiesto al Governo Italiano di argomentare sulle plurime critiche rilevate dalla stessa Corte, con invito a una risoluzione amichevole che eviti il processo.

Si assume la violazione del principio di presunzione di innocenza del giudizio di pericolosità sociale, dedotta dagli stessi fatti oggetto dell’assoluzione in sede penale. Si chiedono spiegazioni sulla determinatezza della fattispecie legale di appartenenza mafiosa, alla luce del significativo contrasto giurisprudenziale all’epoca esistente, nonché sulle garanzie difensive assicurate ai proposti. La “palla” adesso è nel campo di un “altro diritto”, quello della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Sotto processo c’è il sistema della presunzione di pericolosità. Sovviene l’anatema di Leonardo Sciascia: “Quando tutto diventerà mafia nulla sarà più mafia”.