La concezione della pena
Diritto penale e contratto sociale: lo Stato moralizzatore della Meloni
Dal decreto “anti-rave” al decreto “Cutro” per perseguire gli scafi sti in tutto il mondo, al reato “universale” di maternità surrogata, l’azione dell’attuale maggioranza sembra orientata da spinte emotive del momento e improntata su valori nazionali, familiari e securitari. Dov’è l’annunciata svolta liberale?
Politica - di Massimo Donini
Due modelli politici e culturali illustrano le tendenze legislative in materia penale.
La definizione dell’etica pubblica attraverso il diritto. Accade spesso che la legge penale sia usata sempre più come sostitutivo dell’etica pubblica, per introdurre o rafforzare nuove regole di condotta e renderle così davvero cogenti, in quanto una qualsiasi possibile trasgressione ha bisogno della sanzione più stigmatizzante per essere presa sul serio: “se non è penale si può commettere”.
Infatti, tutte le morali tradizionali (cattolica, laica, liberale, socialista-solidarista, comunitaria etc.) sono etiche private di fronte allo Stato. L’unica etica pubblica rimasta è il diritto, che unisce mediante regole davvero “comuni” i diversi suoi destinatari, che sono magari tra di loro “stranieri morali” l’uno all’altro: pensiamo alla bioetica, al fine vita, alla tutela dell’embrione, all’aborto etc.: quando subentra alla bioetica, il biodiritto deve offrire una disciplina che, privilegiando anche soluzioni più orientate in una direzione, consenta alle opposte visioni la libertà di esprimersi: per es. l’aborto liceizzato non obbliga nessuno a praticarlo, e lo stesso vale per l’eutanasia, che fra l’altro non sacrifica persone innocenti, ma solo il titolare del bene che vi rinuncia. Il diritto, dall’illuminismo in poi, si dice che (e non è detto che ciò sia sempre vero) nella sua laicità non obbliga in coscienza, ma solo al rispetto esteriore di precetti ai quali le condotte siano conformi.
Ma allora come si ottiene che i precetti vengano osservati: solo con la paura? Effettivamente il ramo dell’ordinamento più temibile del sistema è quello penale, e in sua assenza molti pensano che tutto si possa commettere pagando un prezzo, come un risarcimento, o una sanzione di natura amministrativa. Invece lo stigma e le conseguenze penali destano apprensione. Il diritto penale esprime un vero prohibiting, un divieto non patteggiabile, perché se si tratta di regole pur sempre aggirabili “pagando una sanzione” quasi che fosse un onere, come nel diritto civile o amministrativo, la Kulturnorm di riferimento non è avvertita come così cogente. Là è sempre un pricing che viene in gioco. Nel penale no, l’imperativo appare più “categorico”, ma proprio per questo più vicino alla morale, a un’etica pubblica, tuttavia non veramente coscienziale.
Muovendo da queste premesse “socio-politiche” è cresciuto nel tempo il ruolo delle concezioni della pena di tipo espressivo: la pena serve ad esprimere nella coscienza collettiva il sentimento di biasimo verso la violazione della norma o il disvalore dei fatti vietati e commessi, ma anche per orientare i consociati e lo stesso autore dell’illecito, al fine di un riconoscimento dei valori protetti. Non è uno strumento orientato a cause e risultati, ma orientato a uno scopo. Già questo fatto giustificherebbe la sanzione. Gli altri obiettivi (rieducazione, risocializzazione, prevenzione effettiva) restano tendenziali.
La punizione per la sua inosservanza avrebbe perciò uno “scopo autonomo” di rafforzamento del precetto, al di là dei risultati, della loro empirica verifica, che in realtà non è veramente misurabile. Queste forme di “eticizzazione” del rapporto con le norme giungono a postulare presso alcuni sostenitori della c.d. prevenzione generale positiva “integratrice” che il fine della pena e del diritto penale consista nel ristabilimento dei precetti, nell’educazione alla fedeltà all’ordinamento. Oppure che tutto l’apparato punitivo sia esso stesso parte di un complessivo orientamento culturale ai valori.
Il modello di Licòfrone. Le “norme” in una concezione liberale.
Le concezioni liberali sono opposte a questa visione molto “communitarian”. Oggi la ragione pubblica è molto, troppo spesso declinata in termini penalistici, partendo dalla tabuizzazione di comportamenti interdetti davvero solo se criminalizzati. Di qui la ineludibile centralità del discorso penale nella cultura quotidiana, il valore “costituente” del penale. Contro questa tendenza va ricordato che la società è “aperta”, e non totalitaria, perché osserva il modello “contrattualistico” di Licòfrone. Licòfrone era un sofista minore, del IV secolo a.C., allievo di Gorgia.
Un passo della Politica di Aristotele (Aristotele, Politica, libro III. 1280 b 8) lo ha, non sappiamo se meritatamente (sul contrattualismo di Licofrone R.G. Mulgan, Lycophron and Greek Theories of Social Contract, in «Journal of History of Ideas», XL, 1979, 121 ss.), consacrato come sostenitore del contratto sociale (bottom up), opposto alle visioni più “statalistiche” (top down) della fonte del diritto: il contratto non è fonte di una giustizia intrinseca, “non rende buoni e giusti i cittadini”, ma ha natura convenzionale.
Questa visione demitizza immagini troppo sacrali della giustizia, che tendono a essere sempre particolarmente autoritarie (cfr. K. Popper, The Open Society and its Enemies (1966), tr. it. La società aperta e i suoi nemici, Armando, 1998, vol. I, 148 ss.): la concezione contrattualista si oppone a quella dello Stato educatore, che appare illiberale. Secondo un’interpretazione liberale, lo Stato non è educatore, né uno Stato etico (un modello che da Platone passa attraverso Hegel, e da noi Gentile), ma uno Stato che protegge beni e persone (anche) dal crimine, senza tuttavia volere educare mediante le pene. Solo lo Stato che ri-nasce da un contratto assicura ai singoli contraenti un valore originario che non potrà dissolversi nell’organismo totalitario del diritto pubblico.
Il prezzo di questa libertà è che non esistono “verità di Stato”. Anche le sentenze dei giudici, per es., non accertano tali verità quando si occupano di grandi fenomeni (mafia, terrorismo etc.), perché non devono scrivere la storia generale, ma accertare singole responsabilità. Quando però la ragione pubblica diventa penalistica ed etica mediante un programma di moralizzazione, dove il contratto sociale è riempito prima dal legislatore come educatore e poi dal potere giudiziario come braccio armato dei precetti, ma per criminalia, si profila una dimensione illiberale del progetto. La stessa razionalità del disegno ne esce alterata: nato come extrema ratio rispetto all’efficacia preventiva delle sanzioni extrapenali, il diritto penale ritorna prima ratio per tutelare le stesse norme-precetto, più che per prevenire eventi e fatti lesivi. Il penale può persino diventare una religione di massa, criterio di tutti i valori e disvalori.
Questa dialettica, tra norme di fonte sociale, oppure di fonte statale alla base della legge più autoritaria come quella penale, accompagna senza sosta il nostro discorso, ma non è possibile risolverla eliminando uno dei due termini del conflitto ideologico. Sarebbe preferibile che la società avesse una propria etica condivisa: ma, se ciò non accade, lo Stato deve intervenire, nei limiti del pluralismo. Come fotografare tale dialettica nell’immediato presente? Il governo introduce con decreto-legge un reato “universale” dove la morte non voluta anche di una persona, unita almeno a lesioni gravi a un’altra persona, è punita fino a trent’anni di reclusione, più di un omicidio doloso, se realizzata nell’ambito di un’attività anche solo di trasporto e ingresso illegale di stranieri mettendo in pericolo la incolumità dei trasportati.
Il governo, parimenti, progetta di rendere perseguibile ovunque sia commesso nel mondo il reato, già punibile oggi a richiesta del Ministro della Giustizia se commesso all’estero, di maternità surrogata (utero in affitto): se fosse un “reato universale” si dovrebbero punire gli stranieri (per es., ucraini, inglesi, americani) che lo realizzino anche nei loro territori dove è permessa la maternità surrogata (come accade per la tratta di esseri umani, la pirateria o il genocidio). L’aberrazione di questo esito ha fatto correggere il progetto, ora approvato alla Camera, limitando la pena ai soli cittadini italiani che lo commettano all’estero.
Ma allora si tratta di un reato nazionale, non certo universale, punito secondo il criterio della nazionalità. Sarà così uno “statuto personale” a seguire il cittadino nel mondo, come nel Medioevo: l’esatto contrario della universalità, tanto sbandierata in funzione simbolico-espressiva. Sempre il governo annuncia di ridurre ulteriormente, invece, gli spazi del reato di abuso di ufficio (art. 323 c.p.), già oggi praticamente ricorrente in modo esiguo in sentenze definitive di condanna dopo la drastica riforma del 2020, quanto alle ipotesi di favoritismo, ma contestato ancora spesso, e dunque più minacciato che applicato.
L’abrogazione secca da un lato appare simbolica, ma dall’altro ci renderebbe tutti più esposti alle prevaricazioni della P.A. (cfr. L’Unità, 22 giugno 2023): una delle tipologie di illeciti oggi rientranti nel reato, e di cui troppo poco il governo pare avvertito. Sul piano delle scriminanti, poi, abbiamo appreso dal Comitato nazionale di bioetica (sollecitato dal governo) che il rifiuto di alimentazione forzata espresso da un detenuto in piena lucidità, durante lo sciopero della fame, e prima di una eventuale perdita di coscienza, potrebbe essere neutralizzato dalla facoltà del sistema di intervenire per salvare il detenuto da una compromissione finale della sua vita: ciò che costituisce l’esatto contrario del principio basico delle DAT (testamento biologico), vale a dire il rispetto della volontà di rifiuto di ogni terapia salvavita, se espresso in forme proceduralizzate, prima della perdita di coscienza o della capacità di intendere e di volere.
Ci vorrà tempo per una valutazione della politica criminale e dei diritti complessiva della attuale maggioranza, senza far cenno adesso agli aspetti processuali: è nominata una commissione per la riforma dell’intero codice. Fin da ora, tuttavia, dopo i primi vagiti penalistici del decreto anti-rave, emerge una linea di intervento orientata da spinte emotive del momento e da una ripetuta narrazione ideologica a sostegno di valori nazionali, familiari, della sicurezza pubblica e della tradizione. Una ideologia simbolica e nazionalista. In attesa di una diversa svolta di ispirazione “liberale” (salvo vedere se per tutti, o per certi tipi d’autore), possiamo dire che la legislazione attuale conserva la tendenza verso un diritto penale come etica pubblica e una concezione “espressiva” della pena, mentre propaganda una visione più liberale e contrattualistica delle regole.
Appartengono a quest’ultima l’idea (generica) di depenalizzare vari reati, quella più concreta di diminuire il controllo di legalità della magistratura su politica, P.A. e impresa, nonché di svincolare l’azione penale dall’idea ingestibile dell’obbligatorietà, che la rende effettivamente funzionale solo a un programma di eticizzazione coatta. Quanto questa dialettica interna alla maggioranza sia manifestazione di un garantismo dei potenti o delle élites, o davvero costituzionale e pluralista, è presto per dirlo.