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L’Italia ha il record di povertà: un quarto della popolazione è a rischio

L’Italia ha il record di povertà: un quarto della popolazione è a rischio

Mai come in questo periodo si è sentito parlare così tanto di povertà. Le cause che la determinano sono molteplici, ma sicuramente hanno inciso i riflessi della pandemia e l’incerta e disomogenea prospettiva economica che dura ormai da decenni. Di povertà si parla, purtroppo, ancora genericamente, ed è giunto il momento di approfondire l’argomento e di uscire fuori dai luoghi comuni.

Secondo l’ISTAT nel 2022 poco meno di un quarto della popolazione, il 24,4%, era a rischio di povertà o di esclusione sociale: era il 25,2% nel 2021. Un dato nuovo, rilevato dai sociologi negli ultimi anni, è quello relativo ai cosiddetti working poor. Nel nostro Paese si calcola che il numero di lavoratori poveri (nonostante il fatto che abbiano un lavoro) si aggiri attorno ai 3 milioni di persone, circa il 13% degli occupati. Se questi sono i dati, occorre agire in due direzioni: dare sostegno alle famiglie in povertà e migliorare il potere d’acquisto delle retribuzioni. Ed è proprio su questi versanti che si giocherà una delle più importanti sfide politiche, tra maggioranza e opposizione, del prossimo autunno.

Il Governo, che a parole si propone come paladino dei più deboli, in realtà sta andando nella direzione opposta con mosse alquanto contraddittorie. Il direttore d’orchestra, Giorgia Meloni, fa sempre più fatica a dirigere dei suonatori stonati. Nelle scelte del Governo è prevalsa la scelta di soddisfare la simbologia dei desideri dell’elettorato del centrodestra, più che badare a quell’interesse del Paese più volte richiamato dalla Presidente del Consiglio. Anche quando si tratta di un tema delicato e scottante come quello della povertà. Si sono inventati i “divanisti” e si è calcata la mano sullo slogan “dobbiamo dare lavoro e non assistenza”. La conseguenza è che, con un algido sms, 160mila famiglie, alla vigilia del periodo estivo, si sono viste private del loro sostegno economico essenziale e avranno come prospettiva la povertà assoluta.

In trincea, al solito, ci sono i sindaci e gli operatori dei presidi territoriali, dall’INPS ai Centri per l’impiego, che dovranno gestire una vera e propria bomba sociale che è stata a loro scaricata. Le avvisaglie c’erano già tutte: la notizia, certificata ufficialmente dall’INPS, è che nello scorso mese di aprile l’assegno del Reddito di Cittadinanza è stato incassato da 956mila famiglie. Non accadeva da prima della pandemia da Covid-19 che il numero delle famiglie che hanno ricevuto il Reddito fosse inferiore al milione. Nel 2021, quando si verificò il picco, le famiglie che lo percepirono erano un milione e 800mila.

Ma un dato effettivamente interessante è il brusco calo delle domande di accesso a tale misura. Infatti, da gennaio ad aprile le richieste sono state 336mila. Rispetto ai primi quattro mesi del 2022 sono 119mila in meno. Cosa è accaduto, dunque? Come mai questa misura ha perso il suo appeal sulla vasta fascia di cittadinanza alle prese con la povertà? Il Reddito di Cittadinanza, è noto, è stato oggetto di una radicale azione di riforma da parte dell’attuale Governo. O meglio, va verso la cancellazione, che avverrà alla fine del 2023. L’intenzione più chiara dell’Esecutivo è attuare un colossale risparmio di spesa che, in questo caso, si aggira intorno a circa 950 milioni di euro soltanto per il 2023.

Nelle disposizioni normative della passata legge di Bilancio su questa materia viene introdotta una “disciplina temporanea, nelle more di una organica riforma delle misure di sostegno alla povertà e di inclusione attiva, volta a revisionare l’attuale impianto della misura Reddito di Cittadinanza nei confronti dei beneficiari in età lavorativa, in modo da evitare un effetto disincentivante al lavoro”. Qui si parla dei cosiddetti “occupabili”, per i quali questo Governo ritiene che ricevere il sussidio rappresenti un incentivo a non attivarsi. Ora, secondo alcuni osservatori, la riduzione delle domande non dipende soltanto dalla “percezione” del percorso di abolizione del Reddito di Cittadinanza in via di attuazione. La riduzione sarebbe anche effetto della ripresa del mercato del lavoro, che ha segnato una crescita (quantitativa) del numero degli occupati.

Ma attenzione, soprattutto alle prospettive. Spiega Confindustria nella sua nota congiunturale di maggio che “il 2° trimestre 2023 si è aperto con qualche segnale debole per l’Italia, dopo il buon andamento del PIL a inizio anno. La situazione è solida nei servizi, meno in industria e costruzioni”. In aprile si segnala “una frenata del fatturato in tutti i settori […], i consumi restano zavorrati dall’inflazione, gli investimenti dal costo del credito, e si è fermato l’export, data la frenata mondiale”. In poche parole il futuro rimane incerto. E se lo è per le imprese, altrettanto lo è per il mercato del lavoro.

Creare collegamenti tra una crescita economica (dalle prospettive incerte) e la riduzione delle richieste al sostegno al reddito potrebbe essere un pericoloso abbaglio. Anche perché non è minimamente scontato che i percettori considerati, i cosiddetti occupabili, facciano parte di quelle coorti di lavoratori già professionalizzati che sono, per lo più, i soggetti maggiormente ricercati dalle imprese. Una necessità talmente forte che abbiamo assistito, da parte dei datori di lavoro, a una massiccia trasformazione di rapporti a tempo determinato in occupazione stabile.

Dopo le scelte restrittive del Governo le prospettive per coloro che sono in condizione di effettiva povertà, in questo Paese, restano incontestabilmente opache. E a questa scelta andrà posto rapidamente rimedio. Su un altro versante, quello del potere d’acquisto delle retribuzioni, il Governo ha pericolosamente oscillato tra una volontà, tutta ideologica, di cancellare la proposta del salario minimo delle opposizioni, e una timida apertura al dialogo. La Premier ha capito che eliminare semplicemente l’oggetto del contendere esponeva il Governo alla negazione di un dato di fatto: la presenza di alcuni milioni di lavoratori poveri.

L’autunno sociale, dunque, sarà segnato dal tema della povertà. I dati sulla crescita quantitativa dell’occupazione non risolvono il problema della sua qualità, della sua remunerazione e della sua stabilità. L’Italia si trova, in un’Europa a 27 che vede mediamente un incremento occupazionale dal 2019 al 2023 del 2,9% (primo trimestre), con un risultato abbondantemente sotto la media, un +1,5%, superata da Spagna (+4,2%), Polonia e Francia (.+3,4%) e Germania (+3,3%).

Anche il nostro tasso di occupazione, che raggiunge il record storico del 66%, sempre nella fascia di età compresa tra i 20 e i 64 anni, è ben al di sotto delle performance degli altri Paesi: non parliamo soltanto dell’81,4% della Germania, ma del 69,9% della Spagna. Sui temi sociali siamo tra gli ultimi: disconoscere questi dati di realtà, lucidarsi qualche medaglietta e accanirsi sui più deboli creerà non poche contraddizioni alla tenuta politica di questa maggioranza.