Il Prefetto di ferro

Chi era Cesare Mori, il prefetto voluto da Mussolini per combattere la mafia

Aveva ben chiaro che la sua azione si prestava a fini di presunto ristabilimento dell’ordine al prezzo di violazioni e ingiustizie anche più gravi rispetto a quelle che avrebbe dovuto reprimere.

Editoriali - di Iuri Maria Prado - 3 Agosto 2023

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Chi era Cesare Mori, il prefetto voluto da Mussolini per combattere la mafia

Almeno Cesare Mori, il “Prefetto di Ferro” che per stanare i mafiosi ne prendeva in ostaggio i figli e le mogli, e per “spezzare i legami” tra il territorio e i vertici criminali torturava i pastori e i contadini al servizio dei “patruna”(i padroni), aveva ben chiaro che la sua azione si prestava a fini di presunto ristabilimento dell’ordine al prezzo di violazioni e ingiustizie anche più gravi rispetto a quelle che avrebbe dovuto reprimere.

Agiva con convinzione sul mandato del capo del governo, Benito Mussolini, che lo incaricava di debellare (“cauterizzare”, scrisse il Duce) “se necessario anche col ferro e col fuoco la piaga della delinquenza siciliana”: ma nelle sue memorie avrebbe annotato che la “qualifica di mafioso viene spesso usata in malafede… come mezzo per compiere vendette, per sfogare rancori, abbattere avversari”, e avrebbe constatato nei processi che seguirono ai suoi rastrellamenti come quell’azione antimafia, in aula di giustizia, si prestasse spesso a simili deviazioni.

Si compiaceva delle celebrazioni che gli tributava il notabilato locale del Partito Nazionale Fascista, il quale descriveva i trionfi del “Grande Prefetto” che “con ferro rovente sta epurando tutte le zone infette dalla organizzazioni delittuose”: ma era l’orgoglio del funzionario di polizia che vede riconosciuto il proprio lavoro esecutivo, in una parola era la soddisfazione del soldato per la medaglia ottenuta sul campo, un atteggiamento molto diverso rispetto al misticismo giustiziere della magistratura repubblicana che non solo giustifica, ma addirittura rivendica, la “fisiologia” di una giurisdizione che per trionfare sul delitto sbatte in galera un po’ di innocenti.

Le cronache sugli assedi dei villaggi nelle montagne siciliane degli anni Venti sono quasi identiche, nella retorica, ai sociologismi delle ordinanze che un secolo dopo calano la propria giustizia sul territorio infetto, l’opera di pulizia che a cerchi concentrici lambisce il milieu mafioso e prende dentro quel che serve, il fratello, la madre, l’amante, il commercialista, il medico, il salumaio, chiunque insomma “oggettivamente” favorisca la vita e gli affari del mafioso: ma almeno quelli erano romanzieri di regime, non estensori di provvedimenti giudiziari scritti in nome del popolo italiano, e non si intrattenevano sulle genetizzate attitudini criminali di una intera popolazione regionale, la malacarne da rieducare al ripudio del parente, alle liturgie del pentimento delatorio e all’inchino davanti alla maestà del procuratore antimafia.

Soprattutto, l’antimafia fascista, per quanto condotta in quel modo brutale e indiscriminato, non si esercitava nella pratica legislativa e giurisprudenziale che in epoca repubblicana e “democratica” avrebbe invece eternato il potere del magistrato di fare ciò che vuole, arrestare chi vuole, perseguitare chi vuole solo che il nome sospetto, le frequentazioni, la carriera professionale, le cuginanze, le partite di calcetto, gli acquisti al supermercato, i sussurri della sua vittima trovino spazio nei reati-voragine della Repubblica delle Procure. E almeno, oltretutto, l’inciviltà dell’antimafia fascista non aveva corso – come invece l’attuale – in presenza di una Costituzione che non dovrebbe consentire certi abusi.

3 Agosto 2023

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