Punti di ripartenza
“L’ineluttabilità dell’uguaglianza”: la sopraffazione a danno dei deboli di Giorgia Meloni
È uscito un libro di David Tozzo, che si chiama L’ineluttabilità dell’uguaglianza, e spiega come nella storia umana l’unica cosa insensata è la disparità. Figlia di una economia malata e della sopraffazione
Editoriali - di Filippo La Porta
“La disuguaglianza è la più grande truffa della Storia a sé stessa…è una violazione della dignità umana, è una negazione della possibilità per le capacità umane di tutti di svilupparsi”. E ancora: “La disuguaglianza non conviene a nessuno, ma mette in pericolo ciascuno”. Queste frasi le traggo da un utilissimo libretto di David Tozzo, attivista civile e politico quarantenne, L’ineluttabilità dell’uguaglianza (Luiss).
Si tratta di un excursus storico-filosofico, con uso di materiali letterari (Austen, Tolstoj, Balzac, Palazzeschi) che parte dalla civiltà dei cacciatori-raccoglitori, in cui le disuguaglianze non erano neanche concepite e la vita di relazione era naturalmente egualitaria e comunitaria, e ripercorre l’idea di uguaglianza in Occidente. Ciò significa che per 200.000 anni, il 95% della nostra Storia, e prima della invenzione dell’economia agricola, gli esseri umani hanno vissuto in società egualitarie non stratificate in cui cooperazione e condivisione erano norma universale. L’idea di uguaglianza sancita da giusnaturalismo e illuminismo si fonda su due correnti premoderne: cristianesimo – siamo tutti creati da Dio – e stoicismo – siamo tutti esseri dotati di ragione.
Personalmente ritengo che la fondazione cristiana ed evangelica dell’idea di uguaglianza sia ancora più radicale: qui tra l’altro viene citato un passo degli Atti degli apostoli che dice che “nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune”. Di questa radicalità assoluta, per noi indigesta, del Nuovo Testamento si nutriva tra l’altro un vero “estremista” come don Milani. Di qui procede nel libro una argomentazione fittissima e documentata, un intarsio di citazioni – da sant’Agostino e Hobbes a Rousseau e a Voltaire e fino Rawls e Dworkin – che alla fine riconosce il suo debito fondamentale verso la riflessione di Bobbio, e che potrebbe essere il punto di partenza di un qualsiasi convegno o seminario del PD alla ricerca della propria identità. Si aggiunga pure che le doti naturali e dell’intelligenza sono moralmente arbitrarie e “in ogni caso non dovrebbero incidere sulla distribuzione delle risorse nella società”.
Non possiamo non dirci meritocratici, ma perché mai il talento dovrebbe generare disuguaglianze di reddito? Si tratta della perversione della pleonexia, la pretesa di volere più del dovuto, giustamente condannata da tutti i classici. Anzi, se si fa un lavoro creativo, dunque in sé appagante, perché mai si dovrebbe rivendicare un reddito maggiore? Tozzo ci avvisa di alcune inversioni di tendenza: “non solo le emissioni di biossido di carbonio non crescono più, ma sembra da vari sondaggi di opinione che “l’80% della popolazione giudichi esagerate le differenze economiche”. Si fa poi riferimento al Manifesto per l’uguaglianza di Luigi Ferrajoli e al reddito minimo di base come garanzia di pace e coesione sociale, ma in una sua versione universalistica e incondizionata, non assistenzialistica, che è presente anche negli articoli 38 e 42 della nostra Carta Costituzionale.
Un reddito di base che andrebbe a compensare, proprio perché a favore di tutti, la iniqua distribuzione del reddito prodotto a favore di pochissimi ad opera del mercato. Ovviamente con una copertura assicurata da un prelievo fiscale riformato (la prima imposta sul reddito si deve alla Danimarca nel 1870). In controtendenza con lo spirito apocalittico di certa sinistra radicale Tozzo stende poi un elogio convinto del progresso e della dialettica storica. Forse esagera un po’, ma ne condivido lo spirito costruttivo, non disperante. Dobbiamo rassegnarci: nonostante la crisi dei subprime, il Covid e la guerra in Ucraina, da tutti gli indici (Gini, Theil ) sembra proprio che la disuguaglianza globale tenda a ridursi: una marcia inarrestabile verso l’uguaglianza, intesa come eguagliamento dei diversi, ma anche, via Bakunin, valorizzando le differenze individuali che costituiscono “la ricchezza dell’umanità”. E con la consapevolezza che libertà ed uguaglianza sono valori che possono tra loro confliggere.
La imperiosa espansione economica cinese è caratterizzata da un profondo deficit di democrazia, e ovunque crescono nuove disparità, ma oggi “l’oppressione di un gruppo sociale da parte di un altro è meno usuale e diventa più insolita, meno accettata. Il filosofo e matematico Condorcet, che si batté contro la schiavitù e per la parità di genere, assumeva la uguaglianza come la condizione naturale antropica. Pensiamoci: la disuguaglianza ha bisogno di ragioni, la uguaglianza no: “se ho una torta e ci sono dieci persone tra cui voglio dividerla, se ne do esattamente un decimo a ciascuno, ciò non richiede, almeno automaticamente, alcuna giustificazione; mentre se mi discosto da questo principio di uguale divisione, ci si aspetta che fornisca una particolare ragione” (Isaiah Berlin).
Ora, Giorgia Meloni, nemica esplicita dell’illuminismo, sostiene che la destra sarebbe più “realistica” perché più vicina alla natura, mentre la sinistra si muove in un mondo astratto, utopico. Ne è proprio sicura? Eppure nella natura non c’è solo, darwinianamente, la legge del più forte, la sopraffazione a danno dei deboli, ma – osservò una volta Simone Weil – in essa troviamo pure il cuore umano, una struttura ben reale nell’universo, e dunque il sentimento di fratellanza, la nostra capacità di amore, di perdono e compassione. Possibile che sia considerato più realistico credere nella “irragionevole” disuguaglianza?