Il 9 agosto 1974
Cosa era il Sifar, il servizio segreto dei militari che spiava i politici: perché Andreotti fece distruggere l’archivio
Giulio Andreotti, Ministro della Difesa, presenziò alla distruzione del tesoro dei servizi segreti. 33mila fascicoli frutto di anni e anni di accurato spionaggio finirono in un inceneritore
Editoriali - di David Romoli
Il 9 agosto 1974, giornata torrida, il ministro della Difesa Giulio Andreotti la passò senza cercare refrigerio. Al contrario, presenziò per ore alla distruzione dei fascicoli del Sifar, frutto di anni e anni di accurato spionaggio. L’ordine di distruzione era partito dallo stesso divo Giulio poco più di un mese prima, il 4 luglio. Nell’inceneritore finirono uno dopo l’altro 200 scatoloni, contenenti circa 33mila fascicoli, nei quali il Sifar, servizio segreto delle Forze Armate, aveva a partire dal 1958 raccolto peccati veri o presunti di tutti quelli che contavano qualcosa in Italia.
I dossier si occupavano certo di politica ma anche di più di faccende private all’epoca inconfessabili: come strumento di ricatto e pressione ma anche come arma per sgambettare i rivali la vita privata era più utile di quella politica. Come è inevitabile fioccarono da subito le accuse di non aver davvero distrutto tutto lo scottante materiale, di averne conservato gelosamente fotocopia, di averlo passato all’immancabile Licio Gelli ma queste sono solo ipotesi più o meno verosimili e spesso fantasiose. Il grosso del tesoro del Sifar andò in cenere quel giorno.
Di cosa si parla lo chiarì il generale Aldo Beolchini, incaricato nel gennaio 1967 di presiedere la commissione d’inchiesta su quei fascicoli illecitamente compilati, raccolti e conservati. Al termine dei lavori, in marzo, Beolchini fece il punto sui dossier: “Per contenerli tutti ci vuole, se non una piazza, un salone molto grande. I nostri sono calcoli approssimativi per difetto: 157mila fascicoli per nome e per soggetto. Alcuni erano mastodontici. Per l’on. Fanfani c’erano 4 volumi, ciascuno gonfio come un doppio dizionario. Poi ci sono quelli per materia e argomento: altri 40mila”.
Il generale De Lorenzo, comandante del Sifar dal 1955, aveva iniziato la raccolta nel 1958 e al prezioso materiale si era aggiunto quello, affine, messo insieme dall’ex ministro degli Interni ed ex primo ministro rovesciato da una rivolta popolare nel 1960 Tambroni. All’inizio la platea spiata e sorvegliata era circoscritta: 2mila fascicoli, robetta. Nel 1960 erano già 17mila ma 2 anni dopo si erano moltiplicati in maniera esponenziale, 117mila e destinati, in base alle stime ufficializzate 5 anni dopo da Beolchini a crescere ancora.
La moltiplicazione era naturale, dal momento che il metodo seguito dal Sifar era quello dell’epidemia: chiunque entrasse in contatto con qualcuno sotto sorveglianza, o come si dice oggi con orrido neologismo fosse “attenzionato”, finiva automaticamente nel mirino a propria volta. Il Sifar stesso descriveva così il proprio obiettivo: “Al Servizio interessa poter avere sempre un preciso orientamento sulle varie personalità che possono assurgere ad alte cariche pubbliche o comunque inserirsi o essere interessate nelle principali attività della vita nazionale in qualsiasi campo”. Raggio decisamente vasto.
Non che fosse proprio necessario accertare i fatti: come d’abitudine nella sorveglianza dei servizi segreti dicerie e pettegolezzi bastavano e avanzavano e se non ce n’erano a sufficienza era il Sifar stesso a mettere in circolazione voci che poi raccoglieva nei fascicoli come fatti accertati. Ad Amintore Fanfani, ad esempio, capitò di vedersi consegnare come prezioso dossier segretissimo una serie di fandonie che lui stesso aveva fatto mettere in circolazione dai suoi uomini nei servizi qualche tempo prima. Perché i potenti della Dc avevano tutti qualche loro uomo nel Sifar e finiva così che tutti spiavano tutti e da tutti erano spiati.
Il gigantesco archivio non fu scoperto nel quadro delle indagini sul Piano Solo, il golpe organizzato più come minaccia che come progetto reale dal presidente della Repubblica Antonio Segni coadiuvato da De Lorenzo, diventato nel frattempo capo dei Carabinieri nel 1964. All’origine ci fu invece la guerra tra lo stesso De Lorenzo, promosso nel frattempo capo di Stato maggiore dell’Esercito, e il pari grado Giuseppe Aloja, capo di Stato maggiore della Difesa. De Lorenzo era in quell’occasione schierato “a sinistra”, contrastava le manovre di un alto ufficiale come Aloja, coinvolto nella strategia della “guerra asimmetrica” contro il comunismo e che aveva pertanto varato “corsi d’ardimento” altamente ideologizzati in tutte e tre le componenti delle Forze armate ma subito aboliti da De Lorenzo nell’esercito.
Lo scontro fu senza esclusione di colpi e l’arma più potente nelle mani di De Lorenzo era proprio il Sifar, che aveva lasciato nelle mani dei suoi fedelissimi: i colonnelli Viggiani e Allavena, promossi a generali senza seguire le procedure per l’occasione e posti a capo rispettivamente del Sifar e della sua struttura principale, l’Ufficio “D”. Il Sifar martella il nemico di De Lorenzo a colpi di veline fatte arrivare alla stampa sulla corruzione nelle Forze armate. Aloja reagisce sostituendo Allavena che prima di lasciare il servizio si porta a casa i dossier più incandescenti. Messo alle corde, Aloja reagisce facendo arrivare alla stampa la notizia sulle schedature illegali del Sifar e nasce così la commissione d’inchiesta Beolchini, che conferma e rincara l’accusa.
Terminati i lavori della commissione, il ministro della Difesa Andrea Lugo convocò De Lorenzo per proporgli una via d’uscita “onorevole” in cambio delle dimissioni spontanee sarebbe stato nominato a breve ambasciatore. De Lorenzo registrò segretamente il colloquio e rifiutò l’accordo. Nel giro di un mese arrivarono all’ Espresso le prime informazioni sul golpe minacciato nel 1964, il Piano Solo. Lo scandalo fu enorme e la censura dovette sudare sette camicie per coprire gli aspetti più imbarazzanti della vicenda. Lo denunciò subito lo stesso Beolchini: “Al Parlamento è stato comunicato poco della metà del testo della relazione. I testimoni interrogati furono 67, gli allegati erano 32: nessuno di essi è giunto in Parlamento. Un intero capitolo è stato saltato a pie’ pari, quello delle intercettazioni”.
La registrazione del colloquio tra Lugo e De Lorenzo fu oggetto di un braccio di ferro con l’opposizione. Alla fine, quando la commissione parlamentare che indagava sul Piano Solo stava per premere il fatidico pulsante e avviare la registrazione, arrivò trafelato il sottosegretario Cossiga con un ordine di requisizione. Il segreto fu conservato. Per eliminare i dossier ci vollero altri sette anni.