L'emergenza migranti
L’emergenza migranti in Friuli Venezia Giulia è costruita a tavolino
Più che altrove, qui la classe politica regionale ha costruito la propria fortuna sull’eliminazione di ogni sostegno all’integrazione dei migranti. Cacciati, oppure ammassati e isolati in grandi centri.
Cronaca - di Gianfranco Schiavone
Nel suo rapporto “Migration trends in the estern Balkans” del 2022 l’IOM (Internation Organisation for Migration) ha registrato 192mila migranti in arrivo nei paesi dei Balcani occidentali non appartenenti all’UE (erano 120mila nel 2021). Il 28%, la nazionalità più numerosa, è rappresentato da afgani; il 26% da siriani. Il 19% dei migranti intervistati da OIM indicano l’Italia come paese di destinazione, il secondo dopo la Germania con il 26%. Dunque quanti migranti arrivano in Italia e quanti vi chiedono asilo? Si tratta di un dato quasi inaccessibile.
Il Ministero dell’Interno è sollecito nel pubblicare sul proprio sito i dati degli arrivi via mare: una pagina denominata “cruscotto statistico” viene aggiornata quotidianamente con il numero degli arrivi, la suddivisione per età, nazionalità etc. A fronte di questa encomiabile (e forse un tantino ossessiva) informazione su chi sia in arrivo dal Mediterraneo, nulla, ma proprio nulla, neppure con cadenza annuale, viene pubblicato sugli arrivi via terra. Come se questi migranti non esistessero. Eppure esistono, ma per sapere chi sono dobbiamo guardare i dati raccolti dalle associazioni e dagli enti di tutela che operano sul campo.
E’ uscito da poco “Vite Abbandonate”, un rapporto eccezionalmente rigoroso e completo sugli arrivi dei migranti nella provincia di Trieste nel 2022, con alcuni primi dati relativi al 2023. Leggendolo, scopriamo che 13.100 persone, di cui la maggioranza afgani (il 54%) “sono state incontrate e hanno ricevuto assistenza nell’area della stazione di Trieste”; si tratta, come lo stesso rapporto evidenzia, di dati sottostimati in quanto non tutti i migranti hanno chiesto aiuto, o erano in transito in ore notturne o nascosti dentro camion o altri mezzi che hanno attraversato la piccola provincia per proseguire verso le loro mete.
Almeno 1400 sono stati i minori non accompagnati, nella quasi totalità (84%) intendono proseguire il viaggio. Difficile fare delle stime ma ragionevolmente possiamo ipotizzare che il numero complessivo degli ingressi nel 2022 solo nella città di Trieste (andrebbero aggiunti i dati, pur inferiori, di Gorizia e in parte di Udine) si collochi in una forbice tra 15.000 e 20.000 con un trend in aumento nel primo semestre del 2023. Un numero contenuto rispetto ai 105.131 migranti che, secondo i dati del Ministero dell’Interno, sono arrivati via mare nel 2022, ma certo ben significativo. La larga maggioranza di coloro che arrivano via terra non intendono rimanere in Italia (il 60% esprime l’orientamento ad andare in altri paesi UE ritenuti più idonei a ricostruirsi una vita).
Poco più di 5.000 sono stati infatti nel corso del 2022 i richiedenti che hanno avuto accesso al sistema di accoglienza; si tratta dunque di un impatto sul sistema d’asilo italiano piuttosto contenuto che sarebbe quasi impercettibile se i richiedenti asilo che provengono dal confine terrestre con la Slovenia venissero inseriti in via ordinaria nel piano di ripartizione nazionale dell’accoglienza. Così però non è.
Non v’è infatti alcuna pianificazione a regime ma solo singole richieste di trasferimenti formulate di volta in volta dalle prefetture della regione e da luglio 2022 (quindi ben prima della fase attuale di congestione del sistema nazionale di accoglienza) i trasferimenti dal Friuli verso il resto del territorio nazionale sono stati progressivamente rallentati provocando da un lato un micidiale sovraffollamento di tutte le strutture esistenti in Friuli Venezia Giulia, a partire da quelle collettive come la Caserma Cavarzerani di Udine (oltre 550 presenze a fronte di 300 posti) e la Caserma Polonio di Gradisca d’Isonzo (oltre 600 presenze, il doppio della capienza) e dall’altro abbandonando in strada un numero elevato di richiedenti asilo, nella speranza che gli stessi, “colpevoli” di essere arrivati in Italia con le proprie gambe, si disperdano e vadano dove vogliono, purché sia altrove.
Della mancata accoglienza dei richiedenti asilo a Trieste e del loro abbandono in strada, anche d’inverno, il rapporto “Vite Abbandonate” fornisce un quadro dettagliato fatto di liste verificate ed inoltrate alle autorità competenti, e per conoscenza all’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati). A tali segnalazioni nessuno ha mai dato alcuna risposta. L’accoglienza immediata dei richiedenti asilo privi di mezzi è un obbligo di legge derivante dall’attuazione della Direttiva 2013/UE/33 ed è una misura fondamentale sia per garantire il rispetto dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che proibisce i trattamenti inumani o degradanti (tra i quali rientrerebbero i trattamenti derivanti dall’abbandono in strada senza alcuna assistenza pubblica), sia per evitare situazioni di pericolo per la sicurezza e la sanità pubblica.
Dopo il rallentamento, con l’arrivo dell’estate i trasferimenti si sono fermati del tutto e mentre scrivo questo articolo la situazione appare già fuori controllo. Curiosamente però nessuna amministrazione locale del Friuli, e soprattutto non la Regione, sollevano, né lo hanno mai fatto in passato, il problema della totale insufficienza dei trasferimenti dei richiedenti asilo né quello del mancato inserimento degli arrivi via terra in Friuli in un piano di ripartizione nazionale. A fronte di questo silenzio l’intero dibattito politico si concentra invece, con dichiarazioni martellanti e quasi quotidiane, sull’apertura di nuovi hotspot nel territorio della regione.
Il 3 agosto scorso il presidente della Regione FVG Fedriga ha dichiarato che “l’hotspot è una struttura per alleggerire le presenze migratorie in Friuli (…) non un grande centro dove le persone si fermano per anni, ma viceversa, è una struttura di passaggio per velocizzare l’allontanamento dei migranti dalla regione stessa (…) Senza questo, essendo il Friuli una regione di confine, gli arrivi, invece, se li dovrebbe tenere il Friuli e i comuni della regione”.
Anche volendo ignorare il linguaggio così sgradevole (velocizzare l’allontanamento dei migranti come se essi fossero degli appestati) non sembra che la logica sia il punto forte del governatore friulano, nessun nesso infatti si rinviene tra la asserita necessità di un hotspot e il mancato piano nazionale di rapida ripartizione dei richiedenti asilo che ben potrebbe funzionare già ora usando le strutture esistenti in Friuli con funzioni di prima accoglienza. Perché Fedriga non chiede che sia operativa ora la ripartizione dei richiedenti asilo che da un anno è quasi bloccata? E in che modo la apertura dell’hotspot friulano (individuato, stando alle ultime notizie, in una grande caserma dismessa e fatiscente nella campagna nei pressi di Palmanova, in provincia di Udine, località Jalmicco) dovrebbe aiutare la ripartizione: moltiplicando per magia i posti in tutta Italia?
Questo groviglio di sciocchezze permette di comprendere cosa si cela dietro l’esplosiva situazione del Friuli Venezia Giulia: l’invocazione degli hotspot non ha nulla a che fare con la rapida collocazione dei richiedenti asilo ma è pretesto per conseguire l’obiettivo politico della creazione di grandi centri chiusi dove detenere i richiedenti asilo, come nell’impianto ideologico della L. 50/23 (il cosiddetto “decreto Cutro”). Il Friuli è una regione dove, più che nelle altre la fortuna politica dell’attuale maggioranza è stata interamente costruita su tre cardini: a) il deciso contrasto alla nascita di progetti di accoglienza territoriale o diffusa da parte dei comuni; b) il sostegno all’apertura di grandi centri ove ammassare i richiedenti asilo e alzare la tensione sociale nel territorio circostante; c) l’eliminazione di ogni azione positiva da parte della Regione per sostenere l’integrazione sociale degli stranieri, e specie dei rifugiati verso i quali viene mostrato un malcelato disprezzo.
Esaminiamo brevemente questi tre aspetti:
1) con il miserabile numero di 268 posti di accoglienza nella rete SAI (Sistema di Accoglienza ed Integrazione), solo sei comuni coinvolti e zero progetti SAI per i minori non accompagnati, il Friuli Venezia Giulia è senza dubbio la peggiore regione d’Italia, ovvero quella che, in proporzione alla popolazione, ha il minor numero di posti di accoglienza aventi standard elevati e finalizzati all’inclusione sociale dei beneficiari.
2) Salvo la vistosa (e per questo avversata) eccezione di Trieste, dove l’accoglienza diffusa è un modello storicamente radicato che riguarda persino i CAS (centri di accoglienza straordinaria) a gestione prefettizia, il territorio della Regione Friuli si caratterizza in media per l’utilizzo di vecchie ed enormi caserme dismesse dove confinare, in uno stato di degrado e totale isolamento sociale, la gran parte dei richiedenti asilo. Tra esse spicca la sopraccitata ex caserma Polonio a Gradisca d’Isonzo (paese di soli 6mila abitanti), dove, caso unico in Italia insieme a quello di Caltanissetta, in un’unica area, separati solo da un muro, sorgono sia il centro di accoglienza per richiedenti asilo che il CPR (centro per i rimpatri) tristemente famoso per le violenze accadute al suo interno e per il numero di decessi. Per la settima volta, con delibera votata a larga maggioranza il 31 luglio 2023 il Consiglio comunale di Gradisca ha chiesto al Governo la chiusura di entrambe le strutture in quanto, come evidenzia la Sindaca Tomasingic “non è pensabile insediare questi grandi centri in piccoli Comuni come i nostri, l’impatto sul tessuto sociale è devastante”.
3) Il TU Immigrazione prevede, tra i principi fondamentali sanciti all’art. 5 comma 5 che “Nell’ambito delle rispettive attribuzioni e dotazioni di bilancio, le regioni, le province, i comuni e gli altri enti locali adottano i provvedimenti concorrenti al perseguimento dell’obbiettivo di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono il pieno riconoscimento dei diritti e degli interessi riconosciuti agli stranieri nel territorio dello Stato, con particolare riguardo a quelle inerenti all’alloggio, alla lingua, all’integrazione sociale, nel rispetto dei diritti fondamentali della persona umana”.
In totale difformità con il ruolo che la norma primaria attribuisce alle regioni, il Friuli Venezia Giulia ha recentemente modificato, con L.R. 3.03.23 n. 9, la previgente legge regionale sull’immigrazione; nel testo attuale le azioni volte a rimuovere gli ostacoli che impediscono agli stranieri di conseguire un pieno riconoscimento dei propri diritti spariscono e vengono sostituite, fin dal primo articolo, da “l’obiettivo generale di mitigare l’impatto sociale del fenomeno migratorio nel territorio regionale” come se le migrazioni in sé non fossero un cambiamento sociale complesso (e quindi con luci ed ombre) ma solo un fenomeno apocalittico, portatore di funesti danni che si possono solo mitigare.
L’ossessiva chiusura perseguita dalla politica estremista della Regione Friuli, dalla quale si stanno in parte smarcando i politici del vicino Veneto, dello stesso colore ma più pragmatici, produce in questa (ancora) ricca ma triste regione investita in pieno dall’inverno demografico, degli ingenti danni economici e sociali perché le potenzialità che deriverebbero da una intelligente gestione dell’arrivo dei rifugiati, che invece vengono isolati e cacciati, vengono sperperate riducendo il territorio a fungere da sterile hub di passaggio. L’emergenza accoglienza in Friuli c’è, ma è un’emergenza voluta e artificialmente costruita.