Strage di Bologna
Contro Fioravanti, Mambro e Ciavardini nessuna prova: solo vaghe ipotesi
Giustizia - di Iuri Maria Prado
Sarebbe interessante sapere quanti, tra quelli che invocano l’irrevocabile “verità” sulla colpevolezza dei condannati per la strage di Bologna, hanno letto le sentenze che si sono occupate del caso e hanno preteso di chiuderlo, in particolare quella della Cassazione. Sarebbe interessante sapere se il giudizio colpevolista si fonda sul convincimento che quelle sentenze sono fondate e ben motivate, o se si accontenta del fatto che è intervenuta una decisione, non importa fondata su cosa, non importa come motivata, non importa quanto attrezzata a resistere all’eresia innocentista. Piacerebbe che ci si affidasse a una decisione giudiziaria perché è convincente, non perché condanna o assolve. E vogliamo vedere, allora, quali sono le ragioni in base alle quali quei tre – Fioravanti, Mambro, Ciavardini – sono stati condannati? Queste ragioni (ed è già uno spettacolo) dalla Suprema Corte di Cassazione sono definite “tematiche”. Vediamole.
La prima: un certo Sparti ha riferito di avere avuto un incontro con Fioravanti, qualche giorno dopo l’attentato, perché Fioravanti aveva bisogno di documenti falsi. E durante questo incontro Fioravanti gli avrebbe detto: “Hai visto che botto?”. In questo modo, secondo la Corte, Fioravanti avrebbe espresso “il suo compiacimento per il risultato di quella impresa terroristica”. Poi la prova definitiva, a tortiglione: siccome la Mambro si sarebbe imbiondita i capelli per girare inosservata a Bologna il 2 agosto, come una turista tedesca o altoatesina, e siccome dopo la strage la polizia cercava una donna con i capelli biondi, e siccome, dunque, la coincidenza del colore biondo dei capelli impensieriva gli imputati, e siccome Sparti dichiarò di aver avuto “percezione” di un cambio di colore dei capelli della Mambro, con riflessi che tiravano al rossiccio, ecco, cospirante con altre che ora vedremo, il sigillo della responsabilità dei due per la strage. Dopo di che la Corte, per pagine e pagine, spiega i motivi per cui il testimone, questo Sparti, doveva considerarsi affidabile, con il corollario di inevitabile pregnanza delle prove ritratte dalle sue dichiarazioni (e cioè “Hai visto che botto?” e la “percezione” del grado di fulvo dei capelli). Cioè io dico che gli asini volano, però siccome sono affidabile c’è caso che gli asini volino.
Poi? Poi c’è la seconda certificazione della responsabilità nella strage. Risiede, argomenta la Corte, nel fatto che Ciavardini, uno dei condannati, avrebbe fatto una telefonata per rinviare “il viaggio da Roma a Venezia che era stato programmato per il 1° agosto 1980 tra la sua fidanzata Elena Venditti e l’amica di costei, Cecilia Loreti ed il fidanzato, Marco Pizzarri”. Perché il differimento del viaggio? Perché, dice la Corte, Ciavardini sapeva che il 2 agosto ci sarebbe stato l’attentato: attentato al quale avrebbe dovuto partecipare (senza dunque poter essere, quel giorno, a Venezia), e attentato al quale non voleva che fossero esposti i suoi amici, che sarebbero passati per la stazione di Bologna sul treno in direzione di Venezia. Mica male, si ammetterà. La prova della responsabilità stragista di Mambro, Fioravanti, e di Ciavardini stesso, perché questi ha spostato la data di una gita.
E poi? Poi la terza “tematica”. E cioè l’omicidio di Francesco Mangiameli, avvenuto qualche settimana dopo l’attentato del 2 agosto. O meglio: non l’omicidio, ma il “movente” dell’omicidio. Quale? Semplice: Mambro e Fioravanti avrebbero deciso di ucciderlo perché quello conosceva la verità sulla strage di Bologna, e la conosceva perché sulla fine di luglio di quell’anno i due, Mambro e Fioravanti, erano stati a casa sua, in Sicilia. Chiaro il ragionamento? Sulla scorta del duplice e gravissimo indizio costituito da “Hai visto che botto?” e dal cangiare inopinato del colore di chioma della Mambro, la prova della responsabilità per la strage, già così ragionevolmente acquisita, si perfeziona nella circostanza dell’omicidio di un mese dopo: avvenuto col movente di chiudere la bocca alla persona, Mangiameli appunto, che qualche giorno prima dell’attentato aveva ospitato i terroristi. E chi lo dice? La Corte. E perché? Perché, spiega la Corte, è vero che non è provato che Mambro e Fioravanti avessero confidato a Mangiameli alcunché a proposito dell’imminente attentato, ma è vero anche che la permanenza dei due in Sicilia, in casa di Mangiameli, è stata “lunga e continua”, e proprio “nel periodo nel quale non poteva che essere stata predisposta tutta la complessa attività preparatoria che quella strage doveva aver necessariamente richiesto”. Cioè: una strage così mica la organizzi in quattro e quattr’otto: e siccome i due erano lì, vuol dire che l’hanno organizzata lì, e lì c’era Mangiameli, al quale magari quelli non hanno detto nulla ma chissà, avrà origliato. E quindi lo ammazzano per quel motivo, perché non rivelasse nulla della strage documentata dalla frase “Hai visto che botto?” e dalle mèches rivelatrici della Mambro.
Fine? No. Manca il quarto elementone indiziario, il più sontuoso: l’alibi che non regge. Gli imputati, infatti, avrebbero fornito versioni rispettivamente contrastanti circa la propria presenza e i propri movimenti nei giorni intorno alla data dell’attentato. Uno dice che era lì, l’altra dice che era là, poi una cambia idea per allinearsi alla verità dell’altro, e così via. E dunque? E dunque, siccome gli imputati non hanno provato che erano altrove a fare altro, vuol dire che erano a Bologna a fare la strage. Funziona così, insomma: 1) Io non ho la prova che eravate lì. 2) Voi però dite cose contraddittorie su dove eravate. 3) E allora è gioco forza che eravate lì. Questa è la sentenza che in nome del popolo italiano ha detto giustizia sulla strage di Bologna e sulla responsabilità di quei tre. Questa è la sentenza che “non si può commentare”, se non rendendosi colpevoli di oltraggio alle vittime e di vilipendio del verbo giudiziario. Stragisti, punto e basta. Perché la magistratura ha provato che hanno fatto la strage? No: perché loro non hanno provato di non averla fatta.