L'ultimo umanista

Chi era Marc Augé, lo scrittore che mi ha spiegato cos’è l’autobus 75

Cultura - di Filippo La Porta - 11 Agosto 2023

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MARC AUGE’ ANTROPOLOGO E ETNOLOGO
MARC AUGE’ ANTROPOLOGO E ETNOLOGO

Ogni volta che prendo il 75 – ormai dai primi anni Ottanta – per andare alla stazione o dalle parti del Colosseo, rievoco automaticamente momenti o episodi della mia vita legati a quell’autobus, alle sue fermate, al paesaggio urbano che attraversa. Il 75 è per me un dispositivo affettivo della memoria, come poi mi ha spiegato bene Marc Augé, grande scrittore dotato di fervida immaginazione sociologica, scomparso giorni fa, e di cui mi onoro di essere stato amico. Augé, nato a Poitiers nel 1935, si afferma come antropologo in Africa – Costa d’Avorio e Togo – poi negli anni Ottanta il suo osservatorio si sposta e così diventa un etnologo del metrò (e poi del bistrò): analizza cioè la nostra contemporaneità così come Levi-Strauss studiava le culture altre, mettendo a fuoco i concetti (e suoi neologismi) di “surmodernità” e “non-luoghi”. Con la prima si intende una modernità segnata da eccesso di tempo, di spazio e di ego: quindi da una sovrabbondanza e simultaneità di eventi, fuori qualsiasi controllo, dallo sviluppo di mezzi di trasporto rapido e infine da un narcisismo sociale per cui l’individuo si considera un mondo a parte, a scapito di qualsiasi dimensione comunitaria. I “non-luoghi” sono i luoghi anonimi della nuova socialità metropolitana, privi di memoria, di storia, di identità: supermercati, grandi catene alberghiere, mezzi di trasporto, sale d’attesa, rampe autostradali… bisogna però sottolineare come Augé fosse un pensatore fortunatamente provvisto di spirito dialettico: di ogni cosa, di ogni fenomeno tende sempre a considerare i due lati, e si sforza di immaginare sintesi possibili.
Ad esempio i non-luoghi oggi secondo lui in parte ridiventano luoghi, dunque spazi relazionali e identitari. Prendiamo il bistrò: da una parte tende oggi ad omologarsi a un non-luogo che ripropone la solitudine degli individui – ognuno alle prese col suo cellulare o con lo sguardo ottuso fisso su un televisore -, eppure anche spazio di incontri inattesi e di chiacchere spontanee, di rallentamento dell’esperienza, zona di resistenza fedele alla sua origine di ambiente intellettuale (in esso nacquero i cenacoli surrealisti e esistenzialisti). O anche il gioco del calcio, cui dedicò un saggio illuminante: da un lato show business, oppio dei popoli e manipolazione delle coscienze, dall’altra religione di un mondo senza più gli dei e spazio di passioni disinteressate, di relazioni tra persone che condividono un fervore (Augé ci ricorda come le più appassionate discussioni filosofiche tra Sartre e Camus erano il naturale prolungamento di quelle calcistiche!). La sua antropologia attenta all’ “irrazionale” e al simbolismo rituale, impegnata in una fenomenologia del sacro dentro il mondo secolarizzato, mi evoca le ricerche di De Martino nel nostro Sud, negli anni Cinquanta. Nei molti libri di Augè – saggi, memori, inchieste, romanzi (da noi pubblicati in gran parte da Eleuthera, poi da Cortina, da Mimesis e da Bollati Boringhieri) – si dispiega una pedagogia del pensare. Oggi si ritiene a torto che per pensare si abbia soprattutto bisogno di Internet e di banche-dati, e invece basta partire da sé, dalla propria percezione delle cose – certo anche integrata da ricerche in Rete-, dall’osservazione paziente e da un’abitudine al ragionamento critico, senza temere di fare domande anche elementari. Questa metodologia intellettuale lo colloca nella grande tradizione del saggismo moderno, antisistematico, soggettivo, capace di usare sia il rigore che l’ironia, critico verso l’esistente. Al contrario del suo illustre predecessore Montaigne, esperto solo di sé stesso, lui è uno specialista, uno studioso settoriale (appunto etnologo), però si sofferma sui problemi con l’aerea libertà di associazioni e la svagatezza indisciplinata di un sublime dilettante. Come Montaigne scriveva i suoi saggi-conversazione come lettere a destinatari inesistenti così Augé scrive i suoi saggi come una lettera aperta ai contemporanei, un diario in pubblico, interrogandosi continuamente se un altro mondo sia possibile.
In un mondo di simulacri, di simulazioni di realtà e modelli in scala, dove non si conosce più qualcuno ma lo si “riconosce” (in televisione) Augé si schiera dalla parte di ciò che è reale, e dunque della vita e della morte, del co-esistere, del corpo fragile e infermo, della nascita e della vecchiaia, degli affetti e della insopprimibile casualità dell’esperienza. La cosmo-tecnologia in cui siamo immersi vorrebbe rassicurarci oltre misura, vorrebbe scongiurare l’evento, braccare l’imprevisto, dominare il corpo, ma evidentemente non può farlo. E anzi non siamo più capaci neanche di “sopportare l’idea di non avere il controllo totale della nostra salute”. La nostra felicità, di noi occidentali, pur consistendo in privilegi e possibilità materiali da cui gli altri sono esclusi, è fatta di fantasmi, di sorrisi falsi, di assenza di relazioni, di un tempo scandito dal palinsesto televisivo, di una esistenza illusoriamente extralight, impegnata soprattutto a immunizzarsi contro sé stessa. In questo sguardo, insieme critico e malinconico, verso la nostra società, Augè ci appare come l’ultimo umanista, di un umanesimo scettico, problematico, ma anche sempre coinvolto.
In definitiva Augé è stato un intellettuale fedele all’illuminismo, all’idea di una ragione condivisa, e alla concretezza della ricerca sul campo, in ciò refrattario alla cosiddetta French Theory, e cioè a quel pensiero verbosissimo, “spettacolare”, estenuato, che ha colonizzato i campus americani e in parte anche la nostra cultura degli ultimi decenni. Quel pensiero che tutto risolve in un funambolismo del discorso e che assume la verità come effetto retorico.
Lui, al contrario, si tiene sempre all’esperienza, al senso comune. Riteneva che certo vivere l’attimo presente corrisponde a una forma di saggezza, sapendo però che il presente è sempre in movimento verso il futuro, e che dunque noi dobbiamo cercare di orientarlo, entro i nostri limiti. Ogni volta che salgo sul 75, Marc Augé si siede idealmente al mio fianco, per conversare un po’.

11 Agosto 2023

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