Il ricordo
Chi era Michela Murgia, militante e intellettuale oltre che scrittrice
La lingua autentica della Sardegna. Fu un’intuizione felice di Michela Murgia. Chissà che tutte le sue parole di questi mesi non fossero un modo per proteggersi prima della morte
Cultura - di Filippo La Porta
Michela Murgia è stata una intellettuale “militante” oltre e forse più che una scrittrice. Paladina dei diritti, figura pubblica legata a battaglie civili, quasi icona pop, conosciuta ben oltre l’ambito letterario. Più Oriana Fallaci che Elsa Morante, e anche se ovviamente i “contenuti” del loro impegno pubblico siano quasi opposti. Una intellettuale capace di mettere in scena le idee, le proprie (contraddittorie) passioni e i propri drammi personali: opinion leader e agguerrita polemista, moralista libertaria, credente iperlaica, fine teologa sfrontatamente in conflitto con la Dottrina.
Una straordinaria drammaturga dell’autobiografia, dal suo libro d’esordio – Il mondo deve sapere (2006) – inchiesta romanzesca sul mondo delle telefoniste precarie, prima blog e poi film di Virzì – fino a Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi (2023) – meditazione zen in forma narrativa su diversi modi di rispondere a un rivolgimento traumatico dell’esistenza. La decisione di rendere pubblica la sua malattia, il 6 maggio scorso – un tumore al rene al quarto stadio, con aspettativa di vita di pochi mesi – ha suscitato un acceso dibattito nei social, dai toni perlopiù imbarazzanti (anche Fallaci volle pubblicizzare il suo cancro, dichiarando di combattere con la testa, ancora integra, un “mucchio di cellule impazzite”: mens sana in corpore infirmo). Personalmente ritengo una colpa anche solo l’aver commentato quella decisione, sia in senso positivo che negativo. Non siamo mica obbligati a commentare ogni cosa.
Possibile che non ci si senta più in dovere di fermarsi ogni tanto – per una forma di rispetto – di non far sapere la nostra opinione su un argomento? Accabadora (2010) è certamente il suo romanzo più ambizioso. Una riflessione in forma poetico-narrativa sull’ambiguo intreccio di bene e male nelle cose umane, conseguenza – per un credente – del peccato originale, almeno fino a quando l’Angelo Sterminatore, alla fine della Storia, tornerà a separare il bene dal male…. Gli indizi li troviamo dalla prima pagina: la piccola Maria nel “sole violento di luglio” impasta una torta di fango con le formiche vive: “il dolce le cresceva in mano, bello come lo sono a volte le cose cattive”. Mentre Nicola Bastìu va ad appiccare il fuoco alla tenuta dei Porresu per vendicare un sopruso: “Per un uomo che aspiri al rispetto degli altri le cose buone possono anche essere gratuite, ma quelle cattive devono sempre essere necessarie”. Due i temi affrontati: adozione ed eutanasia. Da un lato una percezione della maternità ben oltre i suoi confini biologici: la “accabadora”(colei che finisce) adotta una bambina, perciò detta una “figlia dell’anima”.
Ricordo per inciso come nei Promessi sposi, nella scena del lazzaretto anche Manzoni ci mostra come il legami elettivi sono più importanti di quelli di sangue, con tutte le madri che allattano f gli di altre (secondo una preziosa notazione della manzoniana Eleonora Mazzoni). Dall’altra la “buona morte” che nel paesino sardo di Soresu la sarta, un po’ strega e un po’ maga, somministra di notte ai sofferenti. Il romanzo, non sempre sorretto da una lingua adeguata (l’autrice censura un po’ la propria vena comico-grottesca), disegna però un bel personaggio, Maria, saggia e impertinente, testimone muta come il cane Mosè. E poi ci introduce all’atmosfera arcaica, magico-fiabesca della Sardegna degli anni ‘50, senza cadute nel bozzettismo. In God save the queer (2022) Murgia celebra l’ideologia queer scagliandosi contro le religioni monoteistiche e maschiliste, e suggerendo una lettura, appunto in chiave queer, della Trinità, rinvenuta in una icona di Andrej Rublev (dove le tre figure non hanno un sesso definito).
Sul considerare non solo il genere ma anche il sesso biologico, il corpo sessuato, una costruzione culturale, dunque storicamente modificabile, ho qualche dubbio. Come se in questa oltranza teorica (che si rifà a Judith Butler) si celasse la insofferenza verso ogni limite naturale, un segreto disprezzo (gnostico) del corpo vissuto come gabbia, come ostacolo alla nostra libertà (che invece dovrebbe essere, chissà perché assoluta!). Ma soprattutto, rivolgendomi alla teologa: se uno può essere tutto come farà a incontrare Dio (domanda posta da Nicola Mirenzi)?. Se sono tutto, divento io Dio, occupo tutto il campo. Qui arriviamo probabilmente all’aspetto più delicato dell’intera questione. Su cui azzarderò una ipotesi.
Murgia rifiuta qualsiasi identità monologica, univoca, e anzi dichiara il proprio disagio nel solo nominare il numero “1”, poiché oggi più che mai i corpi singoli convivono con la molteplicità delle identità digitali: siamo tutti indefinibili, da una parte e contemporaneamente dall’altra. Il numero “1”, ribadisce, ci rende soli. Vero. Ma è anche vero che, indubitabilmente, si muore da soli. La morte è una esperienza strettamente individuale, che possiamo socializzare e condividere fino a un certo punto. Può riempire il nostro cuore sapere che, se lo vogliamo, siamo tutti al tempo stesso uomini e donne, vecchi e giovani, dentro e fuori…Però non riusciremo mai ad essere al contempo vivi e morti. Anche se tra i vivi e i morti può esserci un dialogo continuo, sotterraneo, come ci ha mostrato un grande scrittore corregionale di Murgia, Salvatore Satta, con il suo romanzo nuorese – epico e negromantico – Il giorno del giudizio.
Una volta Murgia ha osservato con una intuizione felice che la lingua autentica della Sardegna, che non coincide con nessuno dei suoi dialetti, è il silenzio (come emerge dai migliori narratori dell’isola, da Satta ad Atzeni). Ripenso ad Accabadora: le pagine più belle del romanzo, paradossalmente, sono quelle meno “scritte” e meno elaborate, lì dove riesce a farci sentire quell’impenetrabile silenzio, di cui lei ha esperienza, dentro gli stessi dialoghi. E allora mi viene da pensare che tutte le parole che ci ha detto in questi mesi – con la sua sapienza retorica e inesauribile verve teatrale (i suoi travestimenti da maga, da donna col turbante di Vermeer) – non siano altro che un modo per custodire e preservare quel silenzio, un dispositivo che protegge le poche, uniche parole che ognuno dice a se stesso prima del grande silenzio.