La circolare
Il Viminale ordina: gettate per strada i rifugiati, turnover nei centri di accoglienza
Non vengono fornite stime, ma quanto imposto dalla circolare del Ministero si riferisce a chiunque abbia ricevuto il permesso provvisorio e investirà probabilmente migliaia di persone
Politica - di Gianfranco Schiavone
Il 7 agosto 2023 il Ministero dell’Interno – Dip. Libertà Civili, a firma del direttore centrale, prefetto Francesco Zito, ha diramato una circolare alle prefetture nella quale evidenzia la necessità “di assicurare il turn over nelle strutture di accoglienza e garantire la disponibilità di soluzioni alloggiative in favore degli aventi diritto”. Fin qui un auspicio condivisibile a fare una particolare attenzione ad evitare abusi nel sistema di accoglienza o lentezze nel turn-over degli ospiti che non sono accettabili, specie in un periodo come quello attuale.
Il testo prosegue però così subito dopo: “con particolare riferimento ai soggetti che abbiano ottenuto il riconoscimento della protezione internazionale, ma che siano ancora ospitati nelle strutture di cui agli artt. 9 e 11 del citato D.Lgs. 142/2015, si evidenzia la necessità che venga disposta la cessazione delle misure di accoglienza, anche nelle more della consegna del conseguente permesso di soggiorno”. La circolare chiede dunque ai prefetti, funzionari pubblici soggetti innanzitutto alla legge ben prima che alle direttive superiori, di mettere alla porta, senza indugio, rifugiati appena riconosciuti, raccomandando di agire in fretta senza neppure attenere che gli sventurati abbiano in mano il pezzo di carta che certifica la loro condizione giuridica.
Fuori e basta, che vadano dove vogliono, in strada o magari all’estero, non importa; il sistema ha bisogno di posti e le conseguenze sociali, umane e politiche di questo modo per ricavarli non importano. Fedele alla sua tradizionale opacità il Ministero non fornisce stime, ma quanto voluto dalla circolare dovrebbe investire molte migliaia di persone. Il commissario all’emergenza, prefetto Valenti, parlando ai microfoni della trasmissione radio Zapping dell’1 agosto, si è lanciato in ardite analisi sull’esistenza di un presunto “bilanciamento dei bisogni” da porre alla base della scelta dei suoi Uffici sostenendo che in fondo queste persone l’accoglienza l’hanno già avuta e che ora devono arrangiarsi da soli, dimenticando però che la loro appena terminata condizione di richiedenti asilo/protezione internazionale li poneva non solo in una condizione di precarietà, avendo un titolo di soggiorno di durata semestrale, di volta in volta rinnovato (di fatto avendo in mano sempre una ricevuta), bensì di “sospensione” della loro vita futura dal momento che la valutazione della loro domanda di asilo (da cui dipende il loro diritto se rimanere o no in Italia) era, fino a ieri, appunto, ancora pendente.
L’intero sistema di accoglienza di cui i richiedenti da lanciare in strada hanno usufruito era costruito attorno all’erogazione di “servizi essenziali” (d.lgs 142/2015 art. 11 co.2) elegante espressione per indicare quasi nulla oltre il vitto e l’alloggio, spesso erogato in strutture parcheggio di grandi dimensioni (casermoni e strutture adattate all’uso), geograficamente isolate, escludendo in ogni caso l’inserimento degli ospiti in percorsi di formazione e riqualificazione professionale. Per ulteriormente chiarire che i centri di accoglienza devono essere meri depositi umani ci ha pensato la L. 50/23 (conversione in legge del decreto Cutro) che ha previsto l’eliminazione dei servizi di orientamento legale, di sostegno psicologico e di insegnamento della lingua italiana. Informare i richiedenti asilo della procedura giuridica che li riguarda non serve, un supporto per i traumi, le violenze e le torture subite nei paesi di origine e di transito non è necessario darlo, e infine imparare l’italiano non è poi così utile; tanto, per andare a raccogliere i pomodori in effetti non occorre.
Il sistema di accoglienza dei richiedenti asilo si sta progressivamente strutturando in un meccanismo di degrado e di isolamento sociale delle persone che lo abitano e ogni tentativo di assicurare standard dignitosi viene contrastato. Come bene evidenzia un documento tecnico steso dal Tavolo nazionale Asilo e Immigrazione (il più vasto coordinamento di enti ed associazioni che si occupano di questi temi) v’è una “cronica assenza di investimenti nel circuito pubblico dell’accoglienza in capo ai Comuni – quello individuato dalla legge 142/2015 come circuito principale e ordinario e invece ridotto a sistema residuale – il solo che potrebbe consentire di passare da singoli progetti di accoglienza con un welfare nei fatti parallelo e distante da quello locale, a un sistema di servizi a beneficio di tutta la collettività”.
Il nodo di fondo che sta alla base del fallimento del sistema pubblico di accoglienza italiano è infatti che esso non è nato, agli inizi del secolo (gli anni compresi tra il 2002 e il 2005 nei quali l’Italia ha dovuto recepire le norme dell’Unione Europea sull’accoglienza) come un sistema inclusivo da costruire in modo progressivo e con finalità di stabilità, e bensì strutturato in diversi sistemi paralleli mantenendo un costante profondo squilibrio verso le strutture a diretta gestione governativa (che hanno sempre rappresentato una media tra il 70 e l’80% dei posti). Come evidenzia il citato documento del Tavolo si è prodotto una “continua proliferazione di centri straordinari con presumibili grandi concentrazioni di persone, gli unici in grado di garantire economie di scala (i centri piccoli saranno insostenibili, come già avvenne con il capitolato del 2019 legato alla L.132/2018, per quei soggetti gestori che con vocazione sociale e competenze, non limitano i loro interventi a garantire l’alloggio e il controllo)”.
Gestione a bassi o bassissimi costi, inadatti a garantire una gestione adeguata (ma adattissimi a favorire le speculazioni), servizi alla persona inesistenti, degrado, ghettizzazione e creazione di sacche di marginalità sociale, sono le caratteristiche pregnanti del sistema di accoglienza a diretta gestione statale attuato tramite le prefetture da quasi vent’anni. In alcuni momenti è andato un po’ meglio, in altri un po’ peggio, ma il colore di fondo è rimasto lo stesso. Il modello positivo di gestione, cui il documento del Tavolo accenna, è stata la riforma tentata con il D.Lgs142/1015 che aveva cercato di istituire un sistema unico di accoglienza, imperniato sul ruolo dei comuni, che a tal fine ricevono un finanziamento vincolato, rivolto insieme sia ai richiedenti asilo che ai rifugiati, garantendo a questi ultimi la prosecuzione di un percorso di sostengo all’inclusione sociale dopo il riconoscimento della protezione: è il sistema Sprar, oggi rinominato Sai (sistema di accoglienza e integrazione), detto altrimenti della accoglienza diffusa ed integrata nella rete dei servizi socio-assistenziali del territorio.
La riforma del 2015 è in larga parte fallita per le gravi incongruenze giuridiche presenti nel testo normativo che non aveva previsto un effettivo trasferimento di competenze ai comuni per la gestione dei servizi di accoglienza, come pur avrebbe dovuto prevedere per rendere il sistema conforme all’art. 118 della Costituzione. Su questa enorme falla, accompagnata da tanta miopia politica, la tentata riforma è dunque franata e l’apparato del Viminale ha continuato a finanziare poco e a singhiozzo il sistema di accoglienza diffusa affidato ai Comuni mentre ha generosamente alimentato il proprio sistema distorto di gestione diretta dell’accoglienza.
Infine è arrivato il colpo di grazia: con la L. 50/23 il sistema Sai è stato smembrato e ridotto a brandelli sottraendogli persino la funzione dell’accoglienza dei richiedenti asilo e venendo confinato alla sola accoglienza dei rifugiati riconosciuti. Se un sistema italiano di gestione dei richiedenti asilo si sta oggi delineando esso è l’antitesi dell’impianto Sprar/Sai in quanto orientato alla costruzione di un modello basato sulla diffusione di campi di confinamento, ove possibile chiusi (hotspot) e ove aperti, organizzati su modelli di gestione miranti alla segregazione degli ospiti.
Torniamo dunque alla circolare con la quale si gettano in strada i rifugiati; l’attento lettore avrà colto dalle righe precedenti che, per quanto smembrato e impoverito, esiste però per legge un sistema destinato alla accoglienza proprio di quei rifugiati (intendendo tutti i beneficiari di una delle tre forme di protezione normativamente previste). Perché dunque gettarli in strada e non spostarli in tale sistema per completare il loro percorso di inserimento sociale? La radicale illegittimità dell’operato del Ministero sta proprio nell’ignorare volutamente la stessa esistenza di tale sistema di accoglienza per i rifugiati, pur previsto dalla legge (articolo 1-sexies del DL 30.12.1989 n. 416 convertito in L. 28.12.90 n. 39) il quale, oltre all’accoglienza dei rifugiati, ha per legge ancora il compito di dare tutela ai richiedenti asilo in condizioni di specifica vulnerabilità.
Si tratta di un sistema fragile e poco normato, la cui base legale poggia ancora su una legge di ventitré anni fa, e che opera “nel limite dei posti disponibili”. Ad eventuale avvenuta saturazione dei posti il rifugiato potrebbe trovarsi dunque senza alcun posto, al pari del richiedente asilo vulnerabile che potrebbe essere costretto a permanere in una struttura parcheggio. La scarsa strutturazione del sistema, rimasta tale sotto governi di qualunque orientamento, non esime però il Ministero, tramite le sue prefetture, dall’obbligo di segnalare ad un ufficio denominato un po’ pomposamente “servizio centrale” ed operante presso l’Anci proprio in convenzione con lo stesso Ministero, la presenza di un rifugiato da trasferire dal centro di accoglienza per richiedenti asilo, nel quale non ha più titolo a rimanere, ad una struttura del Sai.
Il servizio centrale deve a sua volta, nel rispetto delle norme sul procedimento amministrativo, individuare nel minor tempo possibile il posto di accoglienza dove inviare il rifugiato non potendo rimanere silente, configurandosi diversamente un’omissione per silenzio inadempimento. Nelle more del procedimento di trasferimento la persona non può essere gettata in strada ed è onere della pubblica amministrazione, tanto più in una situazione di pressione migratoria, che il procedimento sia il più rapido possibile. I criteri con i quali assegnare i posti ai rifugiati (criterio cronologico, criterio di prossimità alla precedente struttura per permettere alla persona di continuare il percorso sociale già iniziato, criterio di priorità per vulnerabilità) dovrebbero essere pubblici, ma non lo sono.
In ogni caso i criteri seguiti vanno indicati nella decisione, specie nel caso si comunichi che non è possibile effettuare il trasferimento del rifugiato perché i posti sono esauriti, ma anche in questo caso va prevista la redazione di una trasparente lista di attesa. Se dovessero mancare i posti di accoglienza per i rifugiati (ma diverse inchieste sembrano dire che non è così e che molti posti sono invece lasciati liberi) ciò dovrebbe essere un fatto pubblico e dover comportare un ampliamento di quel sistema pubblico immettendovi risorse adeguate. Nulla di tutto ciò mentre invece ogni freno sembra saltato in aria in questa estate ‘23 per lasciare il posto ad una sorta di farwest dove i fragili vengono scaricati e lo stato di diritto viene ridicolizzato.