Legge di bilancio e Bruxelles
Allarme finanziaria: mancano 30 miliardi, dove li trova la Meloni?
Il governo può contare solo su 4,5 miliardi. Ma tra spese militari, cuneo fiscale, sanità e riforma della contrattazione, trovare le risorse sarà un’impresa
Politica - di David Romoli
La presidente del Consiglio ha gestito e sta gestendo con notevole abilità quella che è nella sostanza una sconfitta: la vicenda del salario minimo, giustamente allargata sino ad abbracciare l’intero nodo del lavoro povero. Da politica esperta si è mossa bene, riuscendo in buona parte a mascherare l’inversione repentina di tendenza. La sua manovra presenta però due lati deboli, entrambi sul versante materiale e concreto: il potere d’acquisto e la legge di bilancio.
Un aumento dei salari, comunque ottenuto, è in Italia doveroso e non rinviabile. Il nodo arriva però al pettine in un momento particolarmente delicato, con un’inflazione che retrocede ma ancora morde. Il rischio è che si inneschi quella spirale prezzi-salari che lo stesso Mario Draghi, con impagabile candore, aveva segnalato come massimo rischio agli inizi dell’ondata inflazionistica, dicendo più o meno: “Fino a che aumentano i prezzi ma non i salari è gestibile”. Senza aggiungere che la “gestibilità” sarebbe andata tutta a carico delle fasce salariate più deboli.
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Il secondo problema è persino più stringente, perché lì non si tratta di un rischio ma di una certezza: una riforma della contrattazione collettiva costerà qualcosa, probabilmente parecchio, allo Stato. Lo ha detto chiaramente la stessa premier, spiegando dopo l’incontro con le opposizioni che la legge va messa a punto prima della presentazione della legge di bilancio, in modo da potersi garantire le coperture. Il problema è che per la manovra il piatto già piange, le coperture non ci sono e il sovraccarico della riforma della contrattazione renderebbe la situazione più grave.
Il governo dispone al momento di 4,5 miliardi previsti dal Def, più un paio di miliardi che dovrebbero uscire dalla tassa sugli extraprofitti bancari, se non verrà ulteriormente ridimensionata nel passaggio parlamentare, più qualcosa in arrivo dalla spending review. Certamente, come sempre, qualche fondo ulteriore, tenuto da parte come risparmio sulle spese precedenti salterà fuori, ma le coperture non dovrebbero andare al momento oltre i 10-12 miliardi. Tra le voci di spesa due sono del tutto ineludibili: il taglio del cuneo fiscale va almeno confermato per il prossimo anno. In caso contrario la mazzata per l’immagine del governo sarebbe esiziale e non si tratta solo di una questione d’immagine: il taglio del cuneo è il perno della intera strategia del governo in politica economica. Costerà 10 miliardi, forse qualcosina in più.
Le spese militari si porteranno via altri 5 o 6 miliardi e anche in quel caso non si tratta di una voce trattabile. Vanno aggiunti i fondi per la Sanità in ginocchio, quelli per confermare almeno quota 103 in materia di pensioni ma Salvini vorrebbe qualcosa in più, i fondi per i contratti della Pa più le varie spese fisse alle quali si aggiungerà il carico dell’intervento sul lavoro povero che comunque non potrà essere a costo zero. Renzi calcola che saranno necessari 30 miliardi e probabilmente non è lontano dalla realtà. È vero che il ministro Giorgetti sta lavorando alla legge di Bilancio già da mesi, incalzato dal rischio che pare ora dissipato di trovarsi senza una parte delle due quote del Pnrr in sospeso, pari a 35 miliardi e già in bilancio.
L’arrivo in settembre della terza rata, 18,5 miliardi, è certo e quello della quarta, 16.5 miliardi, entro il 31 dicembre è quasi altrettanto sicuro. Il Mef era comunque pronto ad affrontare l’eventuale buco di bilancio, Giorgetti ha una enorme esperienza in materia di finanziarie, dunque è probabile che il quadro sia un po’ più roseo di quanto sembri. Il problema però non si pone solo in termini di calcolatrice e ragioneria ma anche, anzi soprattutto di scelte politiche.
La finanziaria dell’anno scorso è stata all’insegna dell’austerità, non solo del rigore. È sulla base di quella inattesa scelta austera che il governo di Giorgia Meloni è entrato a sorpresa nelle grazie della Ue e della Bce. L’anno scorso però il governo si era appena insediato e pertanto poteva dire, come ha effettivamente fatto, che si potevano solo indicare linee di indirizzo senza quasi muovere neppure i primi passi concreti in quelle direzioni. L’alibi stavolta è insostenibile. Una parte della maggioranza , quella incarnata soprattutto da Salvini, scalpita, Bruxelles aspetta al varco per verificare se la svolta rigorista della leader ex populista è solida e strategica o no. Quella della premier dovrà dunque essere una scelta politica e non delle più facili.