In quel periodo, fine ottanta, l’Unità ribolliva. C’era un gruppo dirigente del giornale, giovane, guidato da Renzo Foa, che era travolto da un grande impeto di indipendenza e di laicità. C’eravamo messi in testa che volevamo fare i giornalisti-giornalisti e non i militanti del partito. E che l’Unità dovesse essere un giornale di sinistra, autenticamente di sinistra, anche radicale, ma autonomo dal partito e libero dai pasticci della tradizione comunista.
Avevamo aggregato al giornale molti commentatori non di partito: Balducci, Caffè (che poi morì nell’87), Graziani, Tranfaglia, Luce Irigaray, Gozzini, Wilma Occhipinti, Dacia Maraini, Ginzburg, Tamburrano, Flores, Manconi. Vi dico la verità: sentivamo però che liberarci davvero dallo stalinismo voleva dire anche dare una mazzata al togliattismo, e persino a quella generazione di leader togliattiani di gigantesca statura intellettuale che andavano indifferentemente dalla destra amendoliana alla sinistra di Ingrao. Prima dell’89 avevamo già compiuto qualche ragazzata. Nell’87, anniversario della morte di Gramsci, avevamo pubblicato un articolo di uno storico, Umberto Cardia, che addossava proprio a Togliatti le responsabilità della lunga carcerazione di Gramsci.
Era successo il finimondo. Credo che rischiammo il licenziamento. Fummo convocati a Botteghe Oscure e bastonati da Pajetta, Napolitano, Natta ed altri. ma mantenemmo il nostro posto e anche il nostro piccolo potere. I direttori dell’Unità cambiavano (Macaluso, Chiaromonte, D’Alema) ma noi giovani ex sessantottini avevamo preso il potere, e il giornale, alla fin fine, lo facevamo noi. Quell’anno il direttore era D’Alema, che ci guardava un po’ di sbieco, ma lasciava margini incredibili di libertà. Quando non era d’accordo diceva: “i giornalisti siete voi. Fate…”.
Al vertice del giornale c’erano Foa, io, De Marco, Ceretti, Di Blasi, Guadagni, Spataro, Tulanti, Fontana, Rondolino, Sappino e un’altra decina di persone, meno compatte rispetto a noi ma tuttavia di altissimo livello professionale e, come noi, convinte che bisognasse liberarci del passato (Paolozzi, Leiss, Geremicca, e il gruppo dei milanesi guidato da Bosetti e Pivetta). E quel 19 agosto del 1989, vigilia del venticinquesimo anniversario della morte di Togliatti, il direttore, D’Alema, era in vacanza e irraggiungibile. Così Foa ed io decidemmo di pubblicare in prima pagina un articolo di critica a Togliatti nel venticinquesimo della sua morte. Ci consultammo con Bosetti, che era d’accordo e poi pensammo al titolo. Non mi ricordo se l’idea fu di Renzo o mia. Ne eravamo comunque entusiasti: “c’era una volta Togliatti…”.
Poi ci chiedemmo chi, autorevolmente e spericolatamente avrebbe potuto mai scrivere questo articolo. Ci venne un solo nome. Quello di Biagio. Ma non confidavamo molto che avrebbe mai accettato di compiere un’azione così temeraria. Accettò subito. Ci costò caro? Beh, credo di sì. Alla festa dell’Unità, in settembre, fummo massacrati. Tutto il vecchio gruppo dirigente del Pci era contro di noi. Ci difese D’Alema, che era molto incazzato, credo, perché oggettivamente gli avevamo fatto una mascalzonata, ma rispondeva sempre all’etica comunista secondo la quale comunque il direttore difende i suoi.
Nelle settimane successive moltissimi alti dirigenti del Pci scrissero sull’Unità per contestare Biagio. In modo molto aspro. Passò qualche mese e cadde il muro di Berlino. Altro che c’era una volta Togliatti. Biagio aveva ragione, avevamo ragione noi. Però non ce la riconobbero. Mai. Fummo segnati come inaffidabili. Oggi rileggendo quell’articolo vedo quanto fosse forte l’analisi di De Giovanni. Poi vedo anche un’altra cosa. La distanza tra il livello di quei dibattiti e la qualità della discussione politica di oggi. Quasi quasi ho nostalgia di Togliatti…