Parola al parlamentare dem
“Andare oltre il marxismo, solo così il Pd ha futuro”: intervista a Roberto Morassut
«Non basta più dominare il racconto della storia e delle idee. Occorre l’approccio critico che l’intellettuale Mario Tronti ha saputo sempre coltivare»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
La forza e l’attuale del pensiero di Mario Tronti. Un dibattito de l’Unità, aperto dalle analisi di Goffredo Bettini e Michele Prospero. Ne discutiamo con Roberto Morassut, parlamentare Dem, Vice presidente della Fondazione Giacomo Matteotti. Il suo ultimo libro, Centopagine. Verso un nuovo orizzonte dei Democratici (edito da Cooper) è un prezioso contributo alla costruzione di una identità forte della sinistra e del Pd.
Cosa ha rappresentato Mario Tronti nella storia politico-culturale della sinistra?
Mario Tronti è stato un’espressione straordinaria di un pensiero forte. Non ha mai rinunciato, pur nei grandi rovesci che la storia ha riservato alla vicenda del socialismo, al pensiero marxista, al movimento operaio, a cercare e immaginare nuove impalcature per costruire, a partire da un confronto critico con la realtà esistente, una visione e un pensiero utile per raccordare il campo degli sfruttati e dei deboli per ritrovare quel “popolo perduto” che, come egli stesso ha raccontato sul finire della sua vita, è la grande tragedia della sinistra contemporanea. Anche questo spiega la sua alterità ad ogni forma di populismo ed anche alle sue espressioni politiche attuali, compresa quella del Movimento Cinque Stelle, verso la quale non ha mai avuto simpatia.
Ha un ricordo personale del suo rapporto con il “padre” dell’operaismo?
Ho un ricordo dolcissimo di Mario Tronti, legato agli inizi della mia militanza politica, perché a 20 anni o poco meno lo incontravo sull’autobus che ci portava nel nuovo quartiere della Ferratella, sulla Laurentina, dove entrambi abitavamo; un quartiere della nuova periferia romana degli anni ’80. Egli girava con i mezzi pubblici. Su quei sedili al capolinea, incuriosito e forse attonito, mi osservava leggere testi di Marx e di Engels, letture di cui in quel periodo facevo indigestione. Io sapevo chi era e una volta, imbarazzato, ebbi la forza di avvicinarlo per rivolgergli la parola e manifestargli la mia stima. Era uscito da poco il suo libro “Il tempo della politica”, per me ancora complesso da interpretare. Mi consigliò delle letture. Con il passare del tempo, la mia vicenda politica mi spinse forse un po’ distante dalle sue categorie e non so se questo produsse in lui una certa diffidenza ma il mio sentimento di affetto per la sua dolcezza e per certi versi timidezza ed il mio rispetto e curiosità per ogni sua espressione intellettuale sono rimaste intatte per sempre.
L’Unità, oltre ad aver pubblicato l’ultima, impegnata intervista di Tronti, ha aperto un dibattito sulla forza e l’attualità del suo pensiero.
Su queste pagine Goffredo Bettini e Michele Prospero hanno messo in luce aspetti centrali della vita intellettuale di Mario Tronti: il pensiero come campo dominante della sua vita ed il rapporto con il Partito Comunista Italiano che non si è mai perduto, nonostante Tronti sia sempre stato un intellettuale non “organico”, non funzionale alla sistemazione “susloviana” degli equilibri politici del Pci ma un uomo per certi versi scomodo, critico, capace di suscitare continuamente interrogativi e aprire nuovi campi di ricerca. Da questo punto di vista, forse, solo negli ultimi anni di vita del Pci egli è apparso più “organico” nel senso gramsciano del termine, più parte di un progetto di radicale rinnovamento dell’esperienza comunista italiana, che peraltro lo stesso Berlinguer aveva in parte avviato negli ultimissimi anni della sua vita. Ma poi con la rottura del 1989 tutto è cambiato, penso anche per Tronti che, in un certo senso, ha pagato lo smarrimento e il disorientamento di una rottura epocale che dopo aver messo in discussione il ruolo della classe operaia come soggetto generale del cambiamento, già dagli anni ’80, ha divelto, con la fine dell’Urss e con la globalizzazione, quel “primato della politica” e quell’“autonomia del politico” che egli aveva posto al centro della sua riflessione sviluppando la tradizione che da Machiavelli, a Lenin a Gramsci è stata una traccia forte della cultura comunista italiana e alla quale egli dette un ulteriore e fondamentale impulso.
Nel suo articolo, Michele Prospero ha toccato un nervo scoperto: la fine del Pci.
Non è possibile parlare di Tronti senza parlare, finalmente in modo libero e senza pregiudizi o condizionamenti sentimentali e mentali, della vicenda politica e storica del Pci, a cento anni dalla sua nascita e ad oltre 30 dalla sua conclusione. Tanto più perché Mario Tronti ha rappresentato, insieme ad altri, a partire dagli anni Sessanta il tentativo di costruire una riflessione critica e diversa, pur dentro il campo marxista, sulla prospettiva del socialismo, sulla lettura della struttura di classe della società di allora e soprattutto sul ruolo della classe operaia capace di esprimere una soggettività politica distinta o addirittura competitiva al ruolo “guida” del Partito. In questo senso questo suo esordio filosofico e politico va di pari passo, secondo me, ad un processo politico, storico e sociale che dall’inizio degli anni Sessanta ha visto crescere movimenti, esperienze culturali, intellettuali, letterarie – pensiamo al “Gruppo 63” animato tra gli altri da Edoardo Sanguineti e filosofiche – anche di matrice marxista- che si sono emancipate e affrancate dagli schemi consolidati e dominanti della cultura ufficiale di sinistra o dal principio del Partito-guida, di matrice leninista, ed hanno battuto percorsi alternativi e autonomi.
Quali?
Per strati successivi questo processo di allargamento e di proliferazione di nuovi campi di pensiero e di azione nell’ambito della sinistra politica e sindacale di ispirazione marxista o socialista non si sono mai interrotti e si sono ulteriormente sviluppati con la fine dell’esperienza dei grandi partiti di massa – anche con gli elementi contraddittori e distruttivi che hanno generato – e ci hanno condotto alla situazione di oggi, alla costante mutevolezza delle forme politiche, alla rivendicazione di un principio di sacralità del “democrazia dal basso”, talora di spirito anti partito, fino allo smarrimento delle stesse fonti critiche più salutari del pensiero marxista. Descrivo le forme più estreme del processo ma quel che intendo dire è che quando parliamo di una ricostruzione della forma dei partiti non possiamo prescindere da tutto questo. Tronti non può essere coinvolto in queste evoluzioni o involuzioni, che come ho ricordato egli ha sempre contrastato anche negli ultimi anni, ma non si può negare che egli stesso partì dalla ricerca di un principio ispiratore della politica che metteva al centro la classe e la sua soggettività, la sua capacità di essere un “logos” competitivo rispetto al partito, ma pur sempre un “logos”. È una riflessione, questa che ritengo attualissima e l’ho posta al centro del mio ultimo libro che si intitola “Centopagine”, Questa stratificazione si è consolidata nei decenni, dando vita ad un crogiuolo di elementi che potremmo definire di “civismo politico” che arricchisce ed implementa oggi l’alveo disordinato e complesso del fiume democratico e socialista.
Tema fascinoso, da sviluppare…
Fino alla fine dell’Ottocento dominavano, a sinistra, le famiglie repubblicana e liberale che erano state protagoniste di due diverse idee del Risorgimento. Il sorgere del movimento operaio restrinse il loro campo per far posto allo sviluppo dell’esperienza socialista. Oggi – e non da oggi – il socialismo fa i conti con nuovi universi e pianeti in formazione che si vanno generando da decenni dalla destrutturazione delle forme politiche e statali del Novecento, dalla fine della forma aggregata del lavoro, dalla mutazione stessa della materia oggetto del lavoro e dalla secolarizzazione di massa che in pochi anni sta mettendo in discussione credenze terrene – l’idea di Stati che possano sopprimere le differenze di classe e l’ingiustizia sociale – e credenze ultraterrene – l’idea che esista un “altrove”, scosso dallo sviluppo esponenziale della tecnologia e della scienza. Tutto questo pone al centro il diritto anche singolo, anche minuto dell’individuo in virtù della sua inalienabile unicità ed essenza e mette il secondo piano l’idea forza della “classe”, architrave dell’universo socialista, della forma partito strutturata e in fondo del pensiero critico ma compatto di intellettuali come Mario Tronti. Occorre quindi cogliere questa sfida epocale, questa mobilità delle forme. Uno dei rovelli e dei nodi su cui Goffredo Bettini ha concentrato le sue più recenti riflessioni.
In cosa s’invera questa sfida?
Sul piano delle forme statuali la dimensione europea è decisiva, la sua flessibilità, la natura plastica del concetto di sovranità che ne è alla base sono cruciali e rappresentano una minaccia per le grandi oligarchie continentali di questo tempo. E la guerra sta dentro questo paradigma. Sul piano politico occorre pensare che quel che conta sono più i valori che le forme. Come in mare aperto la rotta è la stella polare che non può essere mai raggiunta del tutto e non ci si arriva per vie lineari ma sfruttando le correnti che l’onda solleva… Questo nostro mondo è destinato a proporci continuamente soggetti e movimenti anche mutevoli che dobbiamo saper cogliere e accostare per non perdere la rotta dei nostri valori Valori costanti e forme mutanti potrei dire. Tutto questo ha bisogno anche di una cultura politica che, in questo mondo di oggi, esca dai limiti dello storicismo marxista italiano, un poco crociano e idealistico. Serve una sintesi di cultura scientifica nel nostro pensiero con colossali innesti di fisica, matematica, biologia…
La sinistra, partitica e non, è attrezzata a questo?
La nostra classe dirigente dovrà essere sempre più profilata in questa direzione. Non basta più dominare solo il racconto della storia e delle idee. La nostra Fondazione, in questo, ha un grande compito. Dovrà essere il nucleo duro e forte di un corpo mobile e flessibile nella società. L’approccio critico che Tronti ha saputo sempre coltivare ci da la postura indispensabile per questa impresa.