Il caso del generale
Una volta discutevamo di Proudhon, Berlinguer e Paolo VI: oggi parliamo del generale Vannacci
Era un’Italia che sapeva di che cosa scriveva e di che cosa parlava, e scriveva e parlava di cose che questi di oggi non considerano non perché ne abbiano altre da offrire, ma perché di quelle nemmeno hanno il sospetto.
Editoriali - di Iuri Maria Prado
Il rischio è di cedere al reducismo barbogio: ma si ammetterà che era un’Italia diversa quella in cui a far discutere di ricchezza e povertà, di immigrazione e di accoglienza, di fecondità e filiazione, di educazione e di famiglia, di nazionalismo e di razzismo, di tecnocrazia e liberalismo, era la Populorum Progressio, non il best seller scritto in italiano claudicante dal generale a petto in fuori contro il pensiero unico.
Non che il caso politico insorto attorno all’esperimento editoriale del paracadutista d’alto rango sia privo di qualsiasi interesse. Anzi, è servito quanto meno a spiegare in quali occasioni e con riferimento a quali argomenti si eccitino le energie liberali di certuni: vale a dire quando è a rischio il diritto di parola sull’anormalità omosessuale e sulla soperchieria degli immigrati ai danni dei nostri bisognosi. Solerzie volteriane a difesa del diritto di opinione che tuttavia non si ripropongono – che so? – quando la parola è quella di un detenuto che lamenta l’inciviltà del 41bis.
Ma il fatto che lenzuolate di commenti e interviste a proposito del generale saggista possano presentare un orlo di interesse non toglie che tanto fervore nel dibattito pubblico si registrasse, un tempo, per cosine un poco più proporzionate. Quali? Inezie come la bomba a grappolo del compromesso storico che Enrico Berlinguer fece esplodere in faccia a un partito con molte componenti di insofferenza e a dispetto di una restante sinistra – quella socialista – assai mal disposta a sopportare l’isolamento che quel progetto politico si preparava a predisporre per chi fosse costretto a subirlo senza parteciparvi.
E ancora, ma giusto andando a caso: il ripescaggio che Bettino Craxi fece di Proudhon, che formalizzava il primo passo del lungo e a volte feroce lavorìo di contesa del potere a sinistra per l’accreditamento al governo del Paese dell’alternativa socialista. Ed era un fatto che non rimaneva seppellito negli atti di qualche convegno: diventava una notizia da telegiornale, e il giorno dopo se ne discuteva nelle scuole, per iniziativa autonoma degli studenti, non per induzione dei professori. O appunto le parole encicliche di Paolo VI, non solo quelle dopotutto più semplici a denuncia delle situazioni di povertà ed emarginazione “la cui ingiustizia grida verso il cielo”, ma piuttosto quelle più implicanti – e proprio per gli stessi cattolici – secondo cui occorre “fare conoscere e avere di più”, affinché sia possibile “essere di più”.
Inutile precisare che si trattava di un armamentario ideologico, di impostazioni culturali, non raramente di retoriche, e sempre di intendimenti, fortemente connotati in senso anti-individualista e – esplicitamente – anti-liberale: insomma erano movimenti e sommovimenti che sfaccettavano un generale profilo, tanto per intendersi, di sinistra e tutto novecentesco-continentale, dunque in buona misura provinciale nella sua separatezza (non dico avversità, anche se di questo si tratterebbe: mi limito a dire separatezza) rispetto alle esperienze democratiche che non conobbero nessuna tragica involuzione autoritaria.
Ma nessuno vorrà negare che quei contributi, pur in quel modo connotati, dessero modo e materia di discussione a un livello di approfondimento e (qui va bene) di complessità che mezzo secolo dopo appare inarrivabile, e che oggi trova riscontro, ma proprio quando va bene, nei moniti ministeriali sul ceppo italico e nelle desolanti ambizioni di palingenesi culturale della destra in ripartenza da Dante Alighieri.
Era un’Italia migliore? Punti di vista. Diciamo che quanto meno era un’Italia che sapeva di che cosa scriveva e di che cosa parlava, e scriveva e parlava di cose che questi di oggi non considerano non perché ne abbiano altre da offrire, ma perché di quelle nemmeno hanno il sospetto. Il fatto che poi di quelle cose l’Italia di quel tempo scrivesse e parlasse in italiano è un’altra nostalgia di noi vecchi.