La fine del comunismo
Il mito infranto del Pci: quell’utopia di resuscitare il patrimonio immenso del Partito Comunista
La macchina da guerra costruita da Togliatti andò a schiantarsi contro il muro di Berlino. Di quel patrimonio immenso, seppure prezioso, è rimasto di politicamente commestibile poco o nulla
Editoriali - di Paolo Franchi
Duccio Trombadori e Michele Prospero hanno sollevato nei loro scritti una questione che almeno potenzialmente va assai oltre il tema – spinoso e affascinante – del ruolo di un pensatore politico potente come Mario Tronti nel marxismo, non solo italiano, e non solo teorico. Per come ho conosciuto Mario, penso che anche solo provarsi a inquadrarla un po’ meglio, senza ovviamente pretendere di venirne a capo, sia un modo di rendergli omaggio che avrebbe apprezzato.
Trombadori si chiede non senza angoscia se e come sia possibile, per riprendere il cammino, rimettere in qualche modo assieme, o almeno far comunicare tra loro, i mille pezzi dello “specchio rotto” cui si è ridotto quello che un tempo chiamavamo il “patrimonio storico” del Pci e, aggiungerei ancora più nettamente io, del movimento operaio e socialista, di cui in Italia i comunisti, pur rappresentandone almeno dal 1948 la componente di gran lunga preponderante, non detenevano (e, quando non cadevano preda della “boria di partito” di gramsciana memoria non pensavano di detenere) il monopolio teorico e politico.
Mi sembra, il suo, un interrogativo non solo legittimo, ma pure doveroso, e non solo per chi (semel abbas, semper abbas?) a questa vicenda resta indissolubilmente legato nonostante il trascorrere impietoso del tempo. Dei vecchi che si prefiggono di produrre idee nuove è bene diffidare, i vecchi che cercano di guardare in una luce nuova il passato forse (forse) possono essere ascoltati, se non con rispetto, almeno con un po’ di attenzione. E dunque. Sul piano, diciamo così, storico-politico, io la penso a grandi linee come Prospero. Lo specchio di Duccio, e non solo di Duccio, prima si è incrinato, poi è andato in frantumi, quando è venuta meno, senza che nulla di significativo le subentrasse, la forma partito genialmente costruita, a partire dal 1944, da quel gigante della politica che rispondeva al nome di Palmiro Togliatti. Tra parentesi.
Il primo ad accorgersene (lo segnalo, en passant, a Goffredo Bettini) alla morte del Migliore è stato, in Uccellacci e uccellini, il corvo pasoliniano che si unisce a Totò e a Ninetto Davoli nel loro peregrinare per le lande desolate dell’ultra periferia romana (per problemi di wifi cito a memoria: il viaggio è appena cominciato, ed è già finito). Ma probabilmente lo presagiva anche l’ultimo Togliatti (molto ma molto più inquieto di quanto ci narra la vulgata), che, non credo solo per una insopprimibile vocazione professorale, terminò il suo discorso conclusivo in una tormentatissima conferenza di organizzazione del Pci citando al suo partito Dante, X Canto del Paradiso: “Messo t’ho innanzi, ormai per te ti ciba”. E tuttavia, intuizioni e premonizioni a parte, quella forma partito (assai più ricca e complessa di quanto dicano le formulette sul centralismo democratico) non senza intoppi, smagliature e cadute resse ancora a lungo, almeno sino alla fine degli anni Settanta, e tenne a battesimo, nel 1975 e nel 1976, i due più grandi successi elettorali nella storia del Pci, anche e forse soprattutto perché togliattiana (forse fuori tempo massimo) era, a cominciare dal compromesso storico, la strategia politica impressa al Pci da Enrico Berlinguer.
Altro che “sensibilità diverse”, come allora pudicamente si diceva. Nel comunismo italiano convivevano non solo “personalità agli antipodi” (Prospero) come Amendola e Ingrao, ma letture della storia italiana, analisi del capitalismo, giudizi sul cosiddetto socialismo realizzato, nonché scuole di pensiero profondamente diverse e talvolta, all’apparenza almeno, inconciliabili. Una simile convivenza non sarebbe stata neanche immaginabile se, a tenerle insieme, non avesse provveduto, cito ancora Prospero, “il paradigma togliattiano” del “partito nuovo come organismo distinto da quello leninista e concepito ab origine in vista di una ricomposizione socialista”, nonché della “Costituzione-progetto … già depositaria di un modello inedito di società che non richiedeva salti, accelerazioni, fratture”.
Ma il Pci puer robustus ac malitiosus ereditato da Togliatti entra irreparabilmente in crisi nell’ultimo scorcio degli anni Settanta, e ancora più vistosamente lungo tutti gli Ottanta, quando, dopo l’assassinio di Aldo Moro e la conseguente fine della stagione dell’unità nazionale e del compromesso storico, il Pci di Berlinguer, ormai sprovvisto di interlocutori, resta anche privo dell’unica strategia di lungo periodo di cui disponeva – quella togliattiana, insisto – e si auto costringe a fare non più politica, ma propaganda: propaganda “di sinistra” anche efficace, almeno finché Berlinguer vive, ma pur sempre propaganda “difensiva” che non incide sulle contraddizioni dell’avversario e non avvicina di un passo la prospettiva della direzione politica del Paese.
È in questo contesto che le divisioni interne (si ricordi, per tutte, la ferocia anche personale delle contestazioni mosse a Giorgio Amendola dopo il suo articolo sulla Fiat, e si rileggano le note riservate redatte per il segretario dal suo più stretto collaboratore, Tonino Tatò) si fanno velenose e irreparabili. Alla morte di Berlinguer, il tentativo di fare una cauta retromarcia rispetto alle posizioni da questi espresse nei suoi ultimi anni (penso ai rapporti con i socialisti, ma pure, con il congresso del 1986, alla collocazione internazionale del partito) per riconnettersi in qualche modo alla tradizione togliattiana lasciano, fuori tempo massimo come sono, il tempo che trovano.
Si potrebbe proseguire con il racconto di quegli anni. Ma forse possono bastare questi scarni accenni per prendere atto che anche l’agonia del Pci, cominciata almeno dieci anni prima della caduta del Muro di Berlino, fa parte del “patrimonio storico” di cui dicevamo all’inizio. E fa parte integrante di un’epoca storica (quella inaugurata dalla Rivoluzione d’Ottobre) che si è conclusa, tra il 1989 e il 1991, con una sconfitta, per l’appunto epocale. Dell’Urss, naturalmente, e pure dei comunisti occidentali che dal modello sovietico avevano preso le distanze, a cominciare dagli italiani, che però, Italia a parte, in Occidente, Francia e Spagna comprese, non contavano più nulla.
Ma, più in generale, anche delle socialdemocrazie, che pure il lungo duello con i comunisti lo avevano stravinto: l’onda impetuosa della globalizzazione e del neoliberismo (ma forse sarebbe più semplice dire: di un capitalismo rimasto senza avversari, e dunque ormai per nulla disposto a lasciarsi tosare, o anche solo condizionare) era in tutta evidenza destinata prima o poi, più prima che poi, a travolgere le fondamenta stessa del compromesso democratico tra capitale e lavoro consegnato alla storia sotto il nome di Stato sociale. Io la ricordo bene, la stagione in cui il motto “non ci sono pasti gratis” divenne un mantra indiscusso e indiscutibile anche per la sinistra che si professava di governo. Era la stessa stagione in cui, sempre nella medesima sinistra, si assicurava che Antonio Gramsci era stato, altro che Silvio Berlusconi e la sua destra impresentabile in società, l’antesignano di una improcastinabile “rivoluzione liberale”.
In Italia non fu solo una sconfitta. Fu una rotta di proporzioni incalcolabili. Per i socialisti che in parte scomparvero per proprie responsabilità, in parte furono fatti scomparire con le cattive. E per i comunisti che, per evitare di restare intrappolati sotto le macerie del Muro, si impegnarono allo spasimo, rifondatori a parte, nello sforzo suicida di fuoriuscire da sé evitando di fare i conti, seppure in extremis, con la propria storia, nella speranza, a dir poco mal riposta, di trovare un posto, o forse addirittura di esercitare una caricatura di egemonia, nel composito campo “nuovista” che aveva i suoi alfieri da una parte nel movimento referendario, dall’altra nella magistratura milanese.
È il caso di ricordarlo sempre, quando ci si chiede, a trent’anni e passa di distanza, come mai del “patrimonio storico” di cui sopra (che non era davvero poca cosa) di politicamente commestibile sia rimasto poco o nulla; è lungo quel passaggio cruciale che la stessa parola “sinistra” ha cominciato a diventare fastidiosa agli occhi della povera gente. Ricordiamolo soprattutto noi, che la parola “sinistra”, di per sé alquanto ambigua, la abbiamo sempre frequentata poco. Ma senza dimenticare che, prima della pessima gestione della sconfitta, c’è stata, per l’appunto, la sconfitta.
Una sconfitta inaudita, perché non ha investito semplicemente delle linee e delle culture politiche, dei gruppi dirigenti, delle forme partito, ma ha tolto senso alle motivazioni di fondo di un agire collettivo che, per quanto appesantito dagli anni e dalle delusioni, un senso condiviso lo aveva eccome: il mondo, il migliore dei mondi possibili, è questo, questi sono i rapporti di produzione, queste sono le gerarchie sociali, toglietevi dalla testa l’idea che si possa assaltare il cielo o anche, più modestamente, che si possano migliorare passo dopo passo le cose, non contate niente, accettate lo stato di cose presente o, se proprio non ci riuscite, arrangiatevi.
La storia non è finita, le promesse mirabolanti non sono state mantenute, il futuro che si preannunciava radioso fa paura. Ma dalle parti dei vinti le cose non sono cambiate. Peggio. I tentativi di buscar el levante por el poniente mimetizzandosi e minimizzando la portata della sconfitta (tanti auguri a Elly Schlein: ma non sarebbe il caso di analizzare impietosamente la vicenda del Pd dal Lingotto ai giorni nostri?) sono nati e sono tramontati senza che i perché della sconfitta medesima venissero scandagliati.
Non credo che cercare di farlo oggi sia mestiere da archivisti. Non sarà l’Unità da sola a portare a compimento una simile, colossale impresa. Ma, magari con un po’ di donchisciottismo, è sin qui, in splendida solitudine, l’unica a provarci. Più che dei nostri auguri, ha bisogno, per quel poco o quel molto che vale, dell’impegno di chi quella storia la attraversata e quella sconfitta la ha vissuta. Con quale casacca di partito, poco importa.
P.S. (Ri)leggo solo ora, anch’io con un po’ di commozione, il “C’erano una volta Togliatti e il comunismo reale” di Biagio de Giovanni pubblicato dall’Unità di Renzo Foa e Piero Sansonetti nell’agosto del fatidico Ottantanove. E leggo pure gli opportuni articoli del medesimo de Giovanni e del medesimo Sansonetti (il mio fraterno amico Renzo non c’è più da un pezzo) pubblicati a corredo. Che dire? Bravi, bellissima iniziativa. Così bella che non mi pare il caso di lasciarla cadere. Soprattutto perché, come ho provato ad argomentare anche in questo articolo, una discussione seria sul Pci non può che partire da Togliatti e dal suo lascito.
In un libretto pubblicato un paio di anni fa dalla Nave di Teseo (“Il Pci e l’eredità di Turati”) ho sostenuto con qualche pezza d’appoggio che lo stalinista Togliatti fu più “turatiano” di molti dei suoi successori. I quali, giustamente chiamati ad andare ben oltre Togliatti su questa strada, si smarrirono però nel bosco, e nonostante una gran quantità di soccorritori si fosse mossa alla loro ricerca, non vennero più rintracciati. Resto della stessa idea.