Il meeting di Rimini
“Altro che rigore: spendere!”: gli assalti di Tajani e Salvini sulla manovra spaccano la maggioranza
Il leader leghista batte i piedi: “Voglio aumentare stipendi e pensioni”, ma a sorpresa anche Tajani alza la posta: “Il patto di stabilità va cambiato”
Politica - di David Romoli
“Non indebito mio figlio per gli stadi ma per gli asili sì”. Passeggiando tra gli stand del meeting di CL a Rimini Salvini butta là una delle sue tante battute a effetto che stavolta potrebbe però essere meno estemporanea del solito. Subito dopo infatti il leader leghista rincara: “Nella legge di bilancio la priorità è aumentare stipendi e pensioni, bisogna mettere lì quel che si ricava risparmiando sul rdc per chi non ne ha diritto e confermando il prelievo sui guadagni milionari delle banche”.
Solo che lui per primo sa bene che quei risparmi e quel prelievo non basteranno neppure a confermare il taglio del cuneo fiscale. Se mai volesse alzare davvero le pensioni dovrebbe appunto indebitarsi ed è proprio quello che il ministro dell’Economia vuole evitare a tutti i costi. Si sa che quando si parla di prelievo sugli extraprofitti il più contrario di tutti, nella maggioranza, è Antonio Tajani, anche lui ieri nell’immancabile Rimini da dove ha ripetuto che le “banche di prossimità” devono essere esentate dalla tassa. Sull’aumento delle pensioni, invece, i duellanti della maggioranza vanno a braccetto.
Fi si prepara a chiedere un aumento sostanzioso: è vero che i mille euro di aumento per le pensioni minime promessi sono un traguardo di legislatura, però il passaggio da 600 a 700 euro gli azzurri lo vogliono già nella manovra di quest’anno. Anche lui sa bene che senza ricorrere al debito quell’obiettivo è irraggiungibile, come sa che una delle principali considerazioni che consigliano a Meloni e Giorgetti di stringere al massimo i cordoni della borsa è la consapevolezza di quanto la credibilità rigorista del governo potrebbe pesare sulla ridefinizione del patto di stabilità.
Infatti è proprio il leader più europeista che ci sia nel centrodestra, ex presidente del Parlamento europeo, ad alzare un volume di fuoco che nei giorni scorsi Giorgetti e Fitto avevano tenuto basso: “Il patto deve essere di Stabilità e di Crescita. Bisogna apportare qualche correttivo per impedire che l’Italia sia aggravata da spese non volute da Governo e Stato come quelle per il Pnrr o per l’Ucraina. Abbiamo già visto i danni della politica rigorista della Bce, dobbiamo impedire che anche il Patto porti alla recessione e al blocco dell’economia europea”. Come un fiume esondante Tajani spara a palle incatenate contro la Banca centrale, “Si doveva fare come in Cina e abbassare i tassi: l’esatto contrario di quel che ha fatto la Bce”, e strattona violentemente il commissario Gentiloni: “Deve fare la sua parte per tutelare l’Italia e una Ue che produce”.
Il ministro dell’Economia e quello responsabile del Pnrr avevano fatto suonare a distesa le sirene d’allarme per il rischio del ritorno delle vecchie regole di Maastricht. Tajani, che da quando ha preso il posto di Berlusconi ha iniziato a smettere i panni del politico mite, ha scelto l’attacco. La sostanza è identica: il governo è nei guai per la legge di bilancio, tanto più che la prevista crescita dell’1% è in forse, probabilmente impossibile, e le casse si troveranno quindi ancora più a secco. Ma come segnalava Giorgetti “le leggi di bilancio sono sempre complicate”: non è questo il cruccio e il terrore del governo. Il vero incubo è proprio il ritorno del patto di stabilità.
È d’uopo affermare, come fanno tutti i ministri, che si allude solo alle “vecchie regole”. Ma la dura realtà è che non è affatto detto che con le nuove le cose saranno più facili. Non esiste nessuna possibilità di modificare il parametro del 3% come tetto nel rapporto deficit/Pil e neppure di rivedere, nella proposta di riforma avanzata dalla Commissione, la norma imposta della Germania che obbliga automaticamente a ridurre dello 0,5% ogni anno il deficit in caso di sforamento del parametro.
La via d’uscita per l’Italia sarebbe quella a cui aveva chiaramente alluso Giorgetti nel suo intervento a Rimini, salvo poi farlo smentire dal suo stesso ministero: una proroga della sospensione delle regole di almeno un altro anno. Ma quella è una missione impossibile e resta dunque la carta di riserva alla quale allude Tajani: la decisione di non considerare nel conteggio del deficit le spese per la transizione verde, per quella digitale, per il Pnrr e per gli aiuti all’Ucraina. Il governo spera che a insistere sia il commissario all’Economia, proprio per questo chiamato così brutalmente in causa dal vicepremier azzurro. Ma persino se Gentiloni rispondesse al richiamo farcela sarebbe molto difficile.