Il clamoroso caso di razzismo
“Ne*ro, inchinati ai bianchi!”: la storia di Emmett Till, il linciaggio che ferì a morte il Mississippi
Tutti qui a Money, Mississippi ricordano quella storia. Il piccolo chiese un bacio alla moglie del negoziante. Tre giorni dopo lo rapirono, lo torturarono, lo uccisero e lo gettarono nel fiume
Archivio Unità - di Piero Sansonetti
Ripubblichiamo qui di seguito il reportage pubblicato sull’Unità del 27 giugno 2004 dalla cittadina di Money, Mississippi, dove Emmett Till, ragazzino afroamericano, fu linciato da due bianchi il 28 agosto del 1955. La sua colpa? Aver osato fare avances a una ragazza bianca.
Il vecchio è ubriaco. Ride, ride in modo squassante. Il ragazzo è sobrio, è serio, ha voglia di parlare. Anche gli amici del vecchio hanno bevuto parecchio. Mi prendono in giro perché ho chiesto dov’è Boulevard street e ho pronunciato alla francese: bulevàr. Il vecchio continua a ripetere: bulevàr, bulevàr, butta indietro la testa e ride a crepapelle. Il vecchio ha gli occhi rossi, è simpatico. Il giovane gli dice di star zitto, vuole ascoltarmi.
La domanda su dov’è Boulevard street lo ha interessato pochissimo, la domanda successiva lo ha preso. Era questa: conosci la storia di Emmett Till? Sì, sì, la conosce benissimo. Minuto per minuto. Il giovane si chiama Clay, ha 35 anni, è nero (anche il vecchio è nero e anche i suoi amici). Gli dico: «È una cosa di cinquant’anni fa, come fai a conoscerla?». Mi risponde che la conoscono tutti e che la storia di Emmett Till è ancora viva perché il razzismo è una bestia maledetta e viva e immortale. Specie qui al sud, specie in Mississippi è immortale. Il giovane se ne sta appoggiato coi gomiti sul parapetto del portico di casa sua, una di quelle baracchette di legno che abbiamo visto in tanti film.
Assi dipinte di celeste chiaro. Due stanze bagno e cucina. La casa sta nel quartiere nero di Greenwood, 20mila abitanti, regno del cotone. Mi hanno detto di non andare nel quartiere nero di sera, non è sicuro. Invece è sicuro. C’è la ferrovia che separa il quartiere nero dal quartiere bianco. La ferrovia taglia in due Fulton street, che è la via principale di Greenwood: a sud gli afroamericani a nord gli anglosassoni. A sud baracchette, a nord quelle ville col giardino, un po’ di legno e un po’ di pietra, lussuose e con tante colonne finte a imitare il Partenone. Clay dice che in questo mezzo secolo non è cambiato niente, niente, e che i bianchi sono delle canaglie più canaglie che mai. Poi si scusa imbarazzato: «non dicevo a te…». Non ti preoccupare. Parlami di Emmett.
LA TRAGEDIA CANTATA DA BOB DYLAN
Clay mi dice di aspettare un attimo, entra in casa ed esce con la chitarra. Si fa vedere anche la moglie. Ora Clay mi racconta la storia di Emmett. Finalmente il vecchio si è chetato e anche i suoi amici. Il vecchio scuote la testa, gli amici dicono a Clay di cantare. È molto intonato. Canta una canzone di Bob Dylan del ’63. Dice più o meno così: «La mattina dopo ho visto i giornali / ma non li potevo sopportare / C’era la foto dei due fratelli che sorridevano / mentre scendevano le scale / La giuria ha detto che sono innocenti / che se ne possono andare / mentre il corpo di Emmett fluttua nella schiuma orrenda / del Jim Crow, giù fino al mare…».
I due fratelli di cui parla Dylan sono due fratellastri bianchi assassini, con nome e cognome: Roy Bryant e J.W. Milam. All’epoca dei fatti avevano uno 24 e uno 36 anni. Emmett era invece un ragazzino che aveva appena compiuto 14 anni, di cognome si chiamava Till, di soprannome Bobo. Bryant e Milam lo hanno rapito, torturato, ucciso, e gettato nel fiume con un peso al collo, perché aveva fatto un complimento alla moglie di Bryant. Bryant era bianco, Emmett era nero. Un nero non può infastidire la moglie di un bianco, oppure paga con la vita. Che legge è? È la legge di Jim Crow. Chi era Crow? Lo vediamo tra un po’.
Dice ancora la canzone di Dylan: «Degli uomini lo hanno rapito, torturato / solo per fargli del male / Loro dicono che avevano una ragione / ma adesso non ricordo quale… / Loro hanno spiegato perché lo hanno ucciso: / e non mentivano per niente / La ragione è che si divertivano a ucciderlo / e a vederlo morire lentamente». Clay mi chiede perché mi occupo di Emmett. Gli dico che non conoscevo questa storia e che l’ho conosciuta perché il ministro della Giustizia ha deciso di riaprire le indagini, dopo mezzo secolo, e dopo che due film hanno riportato l’attenzione del pubblico su Emmett Till. La notizia l’ho letta sui giornali americani in questi giorni. Il senatore Shumer, democratico di New York, ha fatto una lunga battaglia per ottenere la riapertura delle indagini e l’ha vinta.
Allora Clay mi racconta per filo e per segno la storia di Emmett. E non è una ricostruzione di fantasia. Tutti i particolari li ha riferiti J.W.Milam – cioè l’assassino – un anno dopo essere stato assolto, a un settimanale americano che si chiama Look. Gliel’ha venduti per 4000 dollari, che a quel tempo erano molti. Specie per uno spiantato senza un soldo in tasca come Milam. Una confessione vera e propria, ma dopo l’assoluzione. E la legge americana dice che nessuno può essere processato due volte per lo stesso reato.
E allora come fa ora il ministro della Giustizia a riaprire il processo? Ci sono due motivi. Il primo è che potrebbero esserci dei complici, che non sono mai stati processati. Il secondo è che quello di allora fu un processo del Mississippi, di un singolo Stato, quella di oggi è un’indagine federale, cioè di un livello superiore. Allora non fu ammessa la ragione razzista del delitto, che avrebbe imposto un processo federale, e quindi restò un processo locale. Mezzo secolo dopo si è accettata l’idea che quello fu il linciaggio di un nero.
IL CORAGGIO DI BOBO
Siamo nel 1955. C’è un paesino minuscolo, vicino a Greenwood (a 10 chilometri) che si chiama Money. Siamo nel delta del Mississippi, uno dei posti più belli e struggenti del mondo. Il cotone dà da vivere a tutti. La contea di Greenwood – dicono – dal 1917 è il più grande mercato di cotone che c’è sul pianeta. Il cotone lo raccolgono i neri, ma qui si chiamano negri. La gente perbene usa la parola «negroes», i razzisti dicono «niggers». Money è un ufficio postale, una chiesa, un negozietto, un impianto per la prima lavorazione del cotone, un benzinaio con una tettoia e due pompe. Nient’altro. Le case, una quindicina, sono sparse nella campagna.
Il paese è tagliato in due dalla ferrovia. Qui a Money negli anni 20 viveva una famiglia, la famiglia Cartham. Il signor Chartam, che era nero, si stufò di vivere nel sud razzista e se ne andò a Chicago. Insieme alla figlioletta Mamie che poi diventerà la madre di Emmett. Mamie è nata nel 1920, suo figlio nel 1941 (lo stesso anno di Bob Dylan). Il marito di Manie era un ex pugile, divorziarono nel ’42, lui andò in guerra in Italia e non tornò più. Nell’estate del 1954 Mamie se ne va in vacanza in Nebraska. Bobo dice che ormai è grande, vuole andare in vacanza da solo. Dagli zii, anzi i prozii, che vivono ancora a Money: Moses Wright e sua moglie Elizabeth. Lì dagli zii ci sono una quindicina di cuginetti. Il negozietto di Money appartiene al signor Roy Bryant e a sua moglie Carolyn.
Hanno due figli molto piccoli e vivono nel retrobottega del negozio. Carolyn è una donna assai bella, ha ventun’anni, ha vinto due concorsi di bellezza ad Indianola, città a una cinquantina di chilometri da Money, dove ha studiato al liceo. La sera del 24 agosto del 1955, un mercoledì, Bobo Till, i suoi cugini e un paio di amichette sono nello spiazzo davanti al negozio. Uno dei cugini di Bobo lo prende in giro. Gli dice: «Ti dai le arie che ci sai fare con le donne, facci vedere cosa fai con la signora Bryant». Bobo raccoglie la sfida, entra nel negozio, compra le gomme americane e poi dice alla signora: «Cosa ne pensi di darmi un appuntamento, baby?». Lei invece che mettersi a ridere si mette a gridare, chiama la cognata, Bobo insiste: «non devi aver paura di un ragazzo nero, già ho avuto altre donne bianche». Un cugino capisce che Bobo si sta ficcando nei guai seri, entra nel negozio, lo afferra e lo porta fuori. Bobo, sulla porta, si gira ancora, e fischia a Carolyn.
Nella notte tra il sabato e la domenica successiva, due uomini si presentano, alle due, a casa di Moses Wright. Sono armati di pistola. Moses li conosce, sono Roy Bryant e suo fratello J.W. Milam. Vogliono Bobo. Il ragazzo viene svegliato. Loro gli dicono di vestirsi e di far presto. Bob non sembra impaurito. Si veste con calma, lo fanno salire sul furgone di J.W. Milam. Lo mettono nel cassone dietro, loro si siedono nei sedili davanti. Guida Roy. Portano Bobo sul greto del fiume, il Tallahatchie. Lo fanno scendere e lo minacciano con la pistola. Poi lo fanno risalire sul camion, lo portano a casa di J.W., a Glendora, quindici miglia da Money. Dentro casa lo frustano. Lui non piange. Anzi li sfida. Gli grida in faccia: «sono esattamente come voi, valgo quanto voi, non sono diverso dai bianchi. Voi siete dei bastardi». J.W. racconterà nella confessione a pagamento che l’idea era solo quella di picchiarlo e di spaventarlo. Ma lui non si spaventa.
Allora lo fanno salire di nuovo in macchina, e in macchina hanno un’elica di quelle che servono per lavorare il cotone. Pesa circa trenta chili. Lo portano di nuovo sul greto del fiume, a Nord di Glendora, in un punto abbastanza ripido. Il fiume è largo, fanghiglioso, circondato da una vegetazione verdissima e da alberi molto alti. Sul greto del fiume lo frustano un’altra volta. J.W. si arrabbia perché Emmett non piange. Allora tira fuori di nuovo la pistola e gliela punta all’orecchio. Gli chiede: «Hai paura?»: Bobo risponde di no. Gli chiede: «Sei ancora convinto che io e te siamo uguali e valiamo nello stesso modo?». E Bobo risponde di sì. Gli chiede: «Tu credi ancora di avere il diritto di guardare una donna bianca?». Bobo dice di avere il diritto. J.W. capisce che quel ragazzo non può farla franca. Un nero non può sfidare così un bianco: se no è finita. Preme il grilletto. Un colpo s, un proiettile a espansione. Fracassa il cervello di Bobo. Poi, insieme a Roy, J.W. lega l’elica al collo di Emmett e lo butta al fiume. Il corpo riemerge quattro giorni più tardi, in un punto dove il fiume passa vicino a Money. Orribilmente deturpato.
LA BARA APERTA E IL PROCESSO
Mamie Till decide che il funerale si farà con la bara aperta. Vuole che tutti lo guardino in faccia il razzismo. Il funerale si svolge a Chicago. Ci sono cinquantamila persone. Intanto i due assassini sono stati denunciati da Moses Wright, anche se sua moglie ha pregato di non farlo. Non è mai successo qui in Mississippi che un nero denunci un bianco. È molto pericoloso. Moses manda la moglie a Chicago per proteggerla. Lui resta a Money. Lo sceriffo – un brutto ceffo razzista, un certo Clarence Strident – è costretto ad arrestare i due fratelli. Il processo si fa in una città vicina, a Summer, ai primi di settembre.
Il giorno del processo la Corte è strapiena. Lo sceriffo fa mettere i neri fuori dell’aula, nel corridoio. Anche i giornalisti neri restano fuori. E resta fuori anche un deputato nero, Charles Diggs. Lo sceriffo ogni tanto passa nella zona dei neri e li sfotte: «How are you, niggers?». I due fratelli bianchi sono difesi da un folto gruppo di avvocati che presta la propria opera gratuitamente. Tutti gli avvocati bianchi di Greenwood si sono offerti volontari per difendere Bryant e Milam. E inoltre sono stati raccolti 10mila dollari di aiuti. Il processo dura due giorni. Moses Wright va al banco dei testimoni. Gli chiedono se conosce chi ha rapito suo nipote. Lui alza la mano e indica i due imputati. Dice solo una parola: «They», loro. È la prima volta in Mississippi che succede una cosa del genere.
L’aula ammutolisce, è indignata di tanta sfrontatezza. Poi va a testimoniare anche un ragazzetto di 18 anni, un amico di Emmett, anche lui nero, coraggiosissimo. Si chiama Willie Red. Anche lui accusa i fratelli. Dice di abitare di fronte alla casa di J.W., dice che quella notte era sveglio e stava alla finestra, e che ha visto Emmett mentre veniva portato dentro casa da Bryant e da Milam. Poi parla l’avvocato dei due assassini. Si chiama Sidney Carlton. Dice: «Signori giurati, se non liberate questi due ragazzi bianchi i vostri antenati si rivolteranno nella tomba. Ma sono sicuro che questo non succederà: so che voi siete anglosassoni e so che libererete questi fratelli anglosassoni». La giuria è tutta di bianchi. Non ha molto da discutere, la colpa è evidentissima, è chiara come il sole.
La giuria resta riunita per 67 minuti, poi esce: «no guilty», innocenti. Roy e J.W. sono liberi, si abbracciano, baciano le mogli, scendono le scale della corte – come canta Bob Dylan – sorridendo e fumando il sigaro. I gornali del luogo dicono che è stato un brutto delitto, ma che non c’erano prove per condannare i due fratelli e che comunque parlare di linciaggio è eccessivo. La mamma di Emmett scrive al presidente Eisenhower e al mitico capo dell’FBI Hoover. Vuole essere ricevuta. Non la ricevono. Lei dice che si tratta di un delitto razzista e che il governo deve intervenire. Occorre una corte federale. Il ministro della Giustizia scrive a Hoover per avere un parere. Hoover risponde con una lettera di due pagine che andrebbe distribuita in tutte le scuole del mondo per spiegare cos’era l’America ai tempi di Eisenhower.
Hoover dice che l’azione contro la vittima è avvenuta per motivi sessuali e non razziali. Dice che non c’è stata nessuna violazione del «Civil Rights Bill», e che questi fatti vengono confermati da tutti gli agenti dell’Fbi che si sono occupati della vicenda. Scrive testualmente: «Non c’è nessuna prova che la vittima sia stata sottoposta alla privazione di alcun privilegio o garanzia assicurati dalla Costituzione degli Stati Uniti e dalla legge». Del resto, annota Hoover, recentemente, a Washington, un gruppo di ragazzi bianchi è stato aggredito da un gruppo di negri e nessuno ha invocato il delitto razzista e l’indagine federale.
Dunque è buono il processo del Mississippi e l’assoluzione. Recentemente, nel 1994, Roy Bryant è stato intervistato da una radio. Non ha detto niente. Ha solo imprecato contro chi tenta di cambiare le leggi per rimetterlo in mezzo con quella maledetta storia. Ha detto che a lui del delitto non è venuto neanche un nichelino. I soldi dell’intervista li ha presi tutti il fratello e il negozio di Money è fallito perché i neri lo boicottavano.
IL DESERTO DI MONEY
Money oggi è una minuscola città morta. L’impianto per la purificazione del tabacco è chiuso, la stazione di servizio è chiusa, cadente e impolverata, è chiuso e in rovina anche il vecchio negozio dei Bryant. L’edificio è diroccato, le porte e le finestre sbarrate con assi di compensato. Dentro è tutto in sfacelo. C’è solo l’ufficio postale che funziona, poco più di un container. Nell’ufficio c’è l’impiegato e due clienti. Tutti e tre bianchi e tutti e tre abbastanza anziani.
L’impiegato potrebbe avere più o meno l’età di Emmett, cioè 60 o 65 anni. Gli chiedo di Emmett, lui comincia a gridare e a fare gesti con le mani, come ad invitarmi ad andare via. «Chi sei? Cosa vuoi?», mi grida in faccia. Gli dico che sono un giornalista italiano. «Torna in Italia, non cercare qui questa robaccia!». Interviene il più anziano dei clienti, che è venuto per ritirare un pacco di giornali. Lui avrà più di ottant’anni, all’epoca era un uomo fatto. Parla pacato, a voce bassa: «Cosa vuoi sapere?». La storia di Emmett, rispondo. Voglio sapere se è vera. «Sì è vera». Tu sei di qui – chiedo – te la ricordi la storia? «Sì ho sempre vissuto a Money, sì io c’ero», risponde.
Come è potuta avvenire una vergogna simile? «Voi non sapete che clima c’era allora a Money. Tutte le estati arivavano i negri dal nord, arrivavano gli yankee, non se ne poteva più di loro. È stato un incidente». Gli chiedo di indicarmi il negozio di Bryant. «Vattene», mi risponde, «adesso basta domande, go home, torna in Italia». Si allontana zoppicando, appoggiato a un bastone, continuando a ripetere: «vattene, falla finita con questa storia di Emmett». C’è un signore sui cinquant’anni seduto in macchina, e vicino a lui, appoggiato alla macchina, c’è un suo amico. Provo a farmi dire qualcosa da loro ma loro mi guardano fissi e restano zitti davanti alle mie domande. Provo a fare domande che non c’entrano direttamente con Emmett, sul cotone, su Money, sui negozi: restano muti, mi guardano, sfidandomi.
Mi aggiro per le poche case di Money ma sono tutte chiuse. Anche la Chiesa è chiusa. Finalmente incontro un nero. Lui mi indica il negozio dei Bryant, mi porta sul greto del fiume, nel punto dove hanno ucciso Emmett, mi dice che J.W. è morto di cancro nell’89 e che Roy è morto nel ’94, poco dopo quell’intervista alla radio. È viva ancora lei, Carolyn, ha settant’anni, abita ad Indianola, non parla con nessuno, è ancora bella. Carolyn ha paura, perché se riaprono il processo lei potrebbe essere coinvolta. Anche Mamie è morta, la mamma di Emmett. È morta l’anno scorso, a 83 anni, dopo una vita infernale.
Torno a Greenwood. Vado nel quartiere ricco dei bianchi. Chiedo a loro di Emmett. La maggior parte non sa niente, o dice di non sapere. Due signore, sui sessanta, mi rispondono che fu una brutta storia ma che poi i neri ci fecero una montatura. Una persona sola, di una ventina che ho interpellato, non ha dubbi, e dice che quell’estate del ’55 è stata la più brutta estate del Mississippi, e che loro bianchi ci metteranno un secolo per far dimenticare la colpa e la vergogna.
P.S. Dimenticavo di Jim Crow. È il personaggio di una canzone razzista che si cantava in Kentuky alla fine dell’Ottocento. Era il periodo nel quale il razzismo bianco si riorganizzava nel Sud, dopo aver perso la guerra coi nordisti. E le corti supreme dei vari stati (ma anche la corte suprema federale) emanavano sentenze su sentenze contrarie ai neri.
Le leggi segregazioniste erano tutte confermate, il diritto di voto ai neri veniva negato, e il civil right bill del 1875 (molto precedente a quello degli anni kennediani) veniva cancellato perché considerato incostituzionale. Da allora si dice che nel Sud degli stati Uniti la legge vera è quella di Jim Crow, e che nessuna sentenza dell’alta corte di Washington può cambiarla. È una legge non scritta e dichiara la superiorità dei bianchi.