I Quaderni e le lettere
Perché rileggere Gramsci: prima del partito e prima delle classi, c’è la persona
Gramsci non voleva tanto unire l’arte e la vita quanto fare di sé un lettore informato, consapevole della propria epoca e dei conflitti che in essa si agitano.
Cultura - di Filippo La Porta
L’estate è tempo di classici, e anche di classici del pensiero. Stavolta ho riletto una parte dei Quaderni e delle lettere di Gramsci. Per introdurre al pensiero e alla figura di Gramsci, che qui non indagherò in tutta la sua complessa elaborazione politica, comincio da una frase tratta dalla corrispondenza con la moglie Giulia: “[uno non può interessarsi a una comunità] se non ha profondamente amato creature umane individuali”. Una frase in sintonia involontaria con una risposta che diede Hannah Arendt a un intervistatore (la intervista è disponibile su YouTube), e che più o meno suona così “Non amo il popolo ebraico, come non amo il proletariato, si possono amare solo persone singole, concrete”.
Non si amano entità astratte, soggetti collettivi, classi sociali. Una volta Silone disse che il socialismo, che sopravvive in quanto tale ad ogni dio che è fallito, non era altro che “un’estensione dell’esigenza etica dalla ristretta sfera individuale e familiare a tutto il dominio dell’attività umana”, perciò “bastava applicare alla società i principi ritenuti validi per la vita privata”. Certo, per tornare a Gramsci, era un bolscevico, fu chiamato il Lenin italiano – un Lenin senza Rivoluzione –, e di lui ammiratore (“il più grande uomo di stato moderno”), quasi ossessionato dalla soggettività politica – dispiegata appunto dalla Rivoluzione d’Ottobre -, da un atto di volontà che sempre è una forzatura.
In ciò influenzato dal filosofo Gentile: la realtà non è un dato bensì un atto, l’azione che modifica le cose, di qui il partito come moderno Principe. Comunque, anche se al centro delle sue preoccupazioni troviamo questioni di strategia e tattica, guerra di movimento e di posizione, egemonia e consenso, partito e alleanze, la gamma dei suoi interessi era così ampia, e aveva una tale sensibilità culturale, che i Quaderni del carcere costituiscono un capitolo fondamentale della storia delle idee. Molto al di là del loro orizzonte ideologico e della coerenza dottrinaria. Non fu solo un originale pensatore marxista ma un saggista finissimo, critico della cultura e diagnosta di civiltà, moralista dotato di immaginazione sociologica, attento interprete della modernità. In tal senso appartiene più alla famiglia degli Ortega, Weber, Kraus, Benjamin che a quella di Korsch o dei compagni di partito come Togliatti (dei cui scritti politici ben poco rimane).
Si può considerare tra i più noti intellettuali italiani del ‘900 all’estero, forse accanto a Primo Levi o anche a quel Benedetto Croce con cui sempre polemizzò: la sua idea della politica come palingenesi e rifondazione spirituale della nazione era distante dal liberalismo. In odore di trotzkismo venne in parte emarginato dal partito stesso, ma questa è una storia intricata in cui preferisco non addentrarmi. Per lui non ci sono “intellettuali”: l’essere umano è un “intellettuale” poiché “non vi è attività umana da cui si possa escludere un intervento intellettuale”. Come peraltro osservava profeticamente Marx nei Grundrisse a proposito della intelligenza, della conoscenza come principale forza produttiva nel capitalismo avanzato. La sua figura di intellettuale si avvicina all’amateur di Edward Said: non l’esperto o specialista, non l’intellettuale “mandarino” separato, con i suoi privilegi, ma chiunque si fa veicolo di un pensiero critico. In questo consiste il suo impegno.
Ma c’è un possibile, un po’ sorprendente accostamento a Che Guevara suggerito dallo scrittore argentino Ricardo Piglia. La differenza tra i due come profondità e qualità di pensiero è incommensurabile, però entrambi avevano una passione divorante per la lettura. Piglia ce lo presenta in L’ultimo lettore (2007) come “il più grande lettore della sua epoca”, e forse l’ “ultimo lettore” (almeno in senso pieno). La lettura è una attività altamente creativa, ma di solito viene un po’ svalutata in quanto attività passiva, incapace di dare la fama. Si tratta di una passività però ricettiva, creativa. Proprio Borges, un maestro di Piglia, rispose una volta: “Che gli altri si vantino delle pagine che hanno scritto, io sono orgoglioso di quello che ho letto”. La lettura è un’arte umile, appartata. Piglia ne parla in un ritratto di Che Guevara, che appena sbarcato dalla nave Granma, gravemente ferito, e in procinto di morire, si ricordò di un racconto di Jack London per consolarsi. In quel racconto trovò un modo degno per morire.
D’altra parte il Che venne anche fotografato mentre in Bolivia si arrampica su un albero con un libro in mano, in piena guerriglia (dove tutti dovrebbero alleggerirsi di peso!). I suoi vizi dichiarati erano il tabacco e la lettura. Piglia osserva che si trattava di una lettura in stato di emergenza. Vero, ma l’esistenza è sempre “in stato di emergenza”, e perciò occorre chiedere a qualsiasi libro, anche il più mediocre, nientemeno che delle ragioni di vita. Poi Piglia passa a Gramsci, simmetrico e antitetico al Che. Una volta in prigione Gramsci diventa un lettore infaticabile, inesauribile. Come uomo isolato e costretto all’immobilità legge di tutto e disordinatamente: classici, feuilleton, propaganda fascista, gialli, saggi politici e storici, pubblicazioni cattoliche, e da ogni lettura “trae conclusioni considerevoli”.
Ancora prima di immaginare un soggetto collettivo sa che ognuno deve costruirsi una propria soggettività e “si pone in prima persona come esempio di tale costruzione”. Essere “in prima persona” nell’autocostruzione, mettere se stesso come individuo concreto, prima di ogni classe sociale o partito-Principe. Ora, Il Kerouac ritratto da Piglia, accostato al Che e a Gramsci, potrebbe – con il suo proposito di unire l’arte e la vita, di scrivere ciò che si vive – evocare perfino D’Annunzio.
Ma proprio Gramsci non voleva tanto unire l’arte e la vita quanto fare di sé un lettore informato, problematico, consapevole della propria epoca e dei conflitti che in essa si agitano. Anche lui scriveva ciò che viveva, ma vivendo in carcere la sua esistenza coincide con la lettura: dunque scriveva di quello che leggeva, preziosa mediazione con il mondo. Il suo era un impegno a leggere, e lo immaginiamo verosimilmente – borgesianamente – più orgoglioso di quanto leggeva piuttosto che di quanto poteva scrivere e pubblicare.