Se fossero adottate anche le più stringenti norme di protezione, imposti anche i più minuziosi regolamenti di sicurezza, applicate anche le più drastiche misure di prevenzione, resterebbe sempre, la costante discriminatoria del lavoro nella società umana, che a morirne sono alcuni più di altri, i poveri più dei ricchi, chi è assediato dal bisogno più di chi ne è affrancato.
La riduzione delle morti sul lavoro non potrà alterare quell’ineluttabile verità: saranno sempre quelle dei più poveri e bisognosi le vite risparmiate, e saranno ancora dei più poveri e bisognosi quelle che una maggiore sicurezza e una migliore profilassi non basteranno a proteggere.
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Nelle miniere di Stalin non si moriva meno che in quelle gallesi, e semmai la tutela della sicurezza sul lavoro è andata sviluppandosi e consolidandosi nelle economie di mercato ben più che altrove: ma il fatto che lì più che altrove sia protetto chi lavora, il fatto che lì più che nei sistemi dello statalismo antidemocratico siano approntati dispositivi e stabiliti obblighi di tutela, insomma il fatto che la salvaguardia della vita e della salute sul lavoro vada di conserva con lo sviluppo tecnologico e produttivo dei sistemi economici in regime di concorrenza, ebbene non toglie che solo per i soliti, solo e sempre per gli stessi il lavoro è causa di morte.
Quando avremo ridotto al solo caso accidentale, all’inopinata sciagura, all’ingovernabilità della variabile impazzita la forza o l’avversità che stronca una vita sul lavoro, non avremo modificato l’identità della vittima: che sarà sempre quella di chi, per avere più del meno che ha, rischia più di chi ha di più.