Quando Antonio Gramsci concepì il nome della nostra testata, pensava a una sinistra che procedesse unita, “dagli anarchici ai repubblicani”, oltre all’unità tra lavoratori della fabbrica e della terra, tra proletari e intellettuali, tra Nord del Paese e Mezzogiorno. E in effetti oggi andrebbe recuperata la ricchezza e la pluralità feconda della sinistra.
Passione per la sinistra, direi. La semplificazione del quadro politico in due schieramenti non implica necessariamente un impoverimento culturale, ideale e relazionale di ciascuno di essi. Una sinistra delle differenze, anche linguistiche, a più voci non corrisponde a litigiosità, smembramento, confusione e maggiore conflittualità interna. Al contrario: si giunge alla guerra per bande, alla divisione in clan o alla faida quando il tessuto democratico di un soggetto politico è povero e il senso della sua azione si riduce all’occupazione di nicchie di potere.
Vi è un rapporto particolare fra la convivenza all’interno di una società – quella italiana, ad esempio – e la convivenza tra diversi all’interno di una forza politica. Si tratta, è ovvio, di situazioni dissimili. Convivere in uno Stato democratico, pur con le differenze e articolazioni interne, è un dovere, un must, come direbbe fra gli altri Salvatore Veca; pena la retrocessione miseranda nello stato di guerra permanente di tutti (e di tutte) contro tutti (e contro tutte). Convivere fra diversi in uno stesso partito o in una stessa altra organizzazione politica o sociale è, invece, una scelta. Scelta di singoli e di gruppi. Ciononostante, l’esercizio quotidiano della democrazia, la pratica democratica è, nel secondo caso, altrettanto difficoltosa e complessa, più che mai irta di ostacoli, al limite dell’impossibile.
Eppure è di tale esercizio che si nutre la democrazia di un popolo o di un insieme variegato quale è la costruzione europea. Da ciò la riflessione che condividevo giorni fa con lo storico dell’agricoltura Alfonso Pascale sulla democrazia come la più autentica utopia concreta. E, in fondo, perché il richiamo a Gramsci resta così attuale, se non per quella “rivoluzione in Occidente” da lui concepita nel quadro della democrazia? Come rilevato anche da Nadia Urbinati, poi, il pensiero gramsciano scorge e riconosce l’autonomia della società civile rispetto allo Stato e alla politica, accogliendo in ciò uno dei frutti più importanti dell’elaborazione liberale.
Vi sono una ricchezza, una varietà e un carattere fecondo della società che non possono non arricchire una comunità politica quale è un partito. La riduzione del Pd, per tanti lustri, al confronto sterile fra “ex” (comunisti e democristiani) o fra “post” (di nuovo, democristiani e comunisti) ha immiserito sia quella forza politica, sia l’Italia intera. Le ha immiserite penosamente. Quasi si trattasse di una “dialettica” tra fantasmi, tra ciò che non è più (o, nella migliore delle ipotesi, tra ciò che non è ancora).
L’avvento della generazione dei millennial, per contro, può ridestare la speranza, può suscitare un’aspettativa più ambiziosa. Sta a loro, e a noi con loro, per paradossale che possa apparire, ridare slancio a una sinistra ambiziosa e sanamente articolata al proprio interno, “dagli anarchici ai repubblicani”. Una sana tensione e passione per il pluralismo, quello vero.