Parlare male di questo governo è, ormai, come sparare sulla Croce Rossa: è troppo facile. Siamo passati dalla minaccia dei blocchi navali, che hanno eccitato la fantasia dei più fanatici, a cifre mai viste di sbarchi di migranti, di tragedie e di morti; dall’ennesima promessa della Lega di “abolire la legge Fornero” (quante volte, a parole, l’abbiamo cancellata?), al “va già bene se confermiamo quello che c’è”. Per non parlare di flat tax, altro cavallo di battaglia della Destra: e potremmo continuare a lungo. Senza dimenticare le continue e ridicole esternazioni politiche e familiari, alle quali la povera Giorgia Meloni dovrebbe mettere un freno, ma non ci riesce.
Il commento più azzeccato sulla improvvida frase sulla violenza alle donne di Andrea Giambruno, il compagno della presidente del Consiglio, è stato quello di una lucidissima non politica, classe 1934, che è Ornella Vanoni, che ha detto: “Ma il lupo non è nel bicchiere, è fuori dal bicchiere”. Una grande lezione di stile, sottovoce, rivolta a personaggi che di stile e misura non ne hanno. Venendo al merito ci preme, poi, correggere alcuni messaggi ingannevoli che il governo ha cominciato a mandare. Il primo è quello relativo al cuneo fiscale: sappiamo che l’aumento del netto in busta paga è stato realizzato dal governo Draghi, confermato dal governo Meloni e successivamente ampliato, solo per sei mesi, da luglio a dicembre 2023. Dopo quella data scade. Se non viene prorogato nel 2024, quegli 80-90 euro netti mensili che vanno a vantaggio soprattutto dei salari vicini ai 25mila euro lordi annui, scompaiono.
Quindi, la retorica governativa secondo la quale con il cuneo fiscale rifinanziato per il prossimo anno “aumentiamo” il potere d’acquisto delle retribuzioni, è falsa. L’operazione serve per “mantenere” l’attuale potere d’acquisto e, se non si fa, salari e stipendi verrebbero impoveriti proprio nel momento in cui è al centro della discussione il tema delle basse retribuzioni, che andrebbe affrontato giocando su più tasti: valorizzazione della contrattazione, salario minimo e cuneo fiscale. Lo stesso discorso vale per l’Ape Sociale, Quota 103 e Opzione Donna: scadono al 31 dicembre di quest’anno ed è, quindi, obbligatorio rinnovarle, altrimenti scompaiono e davvero ci sarebbe il rischio di una rivolta sociale. Quello che il governo si propone di fare nella manovra, nei termini omeopatici indicati da Giorgetti, è solo la manutenzione di quel che riguarda il potere d’acquisto dei salari e le pensioni. Già solo questo vale circa 20 miliardi di euro.
Ci sono? Con l’aggravante di un Esecutivo che ripete a ogni piè sospinto di badare al sociale e che colpisce proprio il sociale: l’abolizione del reddito di cittadinanza porta a risparmi miliardari sulle spalle dei più poveri, al di là dei correttivi che si potevano e dovevano apportare alla misura. Opzione Donna è stata massacrata e ristretta a poche figure. Sulle pensioni, dopo i 10 miliardi di euro di taglio delle indicizzazioni rispetto all’andamento dell’inflazione per chi ha un assegno superiore ai 2.100 euro lordi mensili, si annuncia una nuova sforbiciata che ancora una volta non colpirà i più ricchi, ma il cosiddetto ceto medio dei pensionati, con la quale non si miglioreranno le pensioni dei giovani, ma si copriranno i buchi di Bilancio. Durante la campagna elettorale i partiti di destra hanno illuso gli elettori con bellissimi sogni: ora è giunto il tempo del richiamo al realismo. Vale a dire: passata la festa, gabbato lo santo.
Sulla previdenza ci vorrebbe, finalmente, una riforma strutturale che superi davvero la legge Fornero e che ridisegni la sua architettura mano a mano che entriamo in un sistema tutto retributivo accompagnato dal gelo demografico: una forma di flessibilità universale che collochi gradualmente l’asticella dell’uscita previdenziale a 62-63 anni, prevedendo alcune moderate penalizzazioni per chi non svolge lavori usuranti o gravosi; la valorizzazione, soprattutto per i soggetti più fragili, giovani e donne, di tutti i periodi di attività extra-lavorativa ai fini della rivalutazione del montante dei contributi: riscatto facilitato della laurea, lavori di cura, formazione certificata, volontariato, Cassa Integrazione, disoccupazione, figli; il rilancio della pensione integrativa con un nuovo semestre di silenzio assenso. Ma di tutto questo non esiste più traccia.
LA LEGGE DI BILANCIO
Siamo, dunque, all’avvio della fase di costruzione della legge di Bilancio per il 2024. Fase che passerà, di qui a fine settembre, per la redazione della Nadef, la Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza, ossia il testo che, come spiegano i siti web delle Istituzioni italiane, presenta “le previsioni macroeconomiche e di finanza pubblica, nonché gli obiettivi programmatici del Documento di economia e finanza, in relazione alla maggiore stabilità e affidabilità delle informazioni disponibili sull’andamento del quadro macroeconomico, oltre che sulla base delle raccomandazioni del Consiglio dell’Unione europea relative al Programma di stabilità e al Programma nazionale di riforma”.
Vogliamo fare, nuovamente, un ragionamento sul rapporto complesso che esiste tra politica e realtà. O meglio: tra promesse elettorali e realtà. Nulla è più vincolato alla realtà della legge di Bilancio. Una pietra miliare di un processo degenerativo nel rapporto tra promesse elettorali e realtà può essere individuata in uno slogan come “meno tasse per tutti”, iconica espressione del marketing politico berlusconiano che ha segnato indelebilmente gli ultimi decenni della politica italiana. E questo proprio perché la politica si è adeguata al prevalere della comunicazione sulla sostanza ed è divenuta, per molti versi, marketing.
Ma il vizio delle promesse elettorali esagerate è vecchio. E, in questo periodo, mi capita di ricordare un saggio adagio di Alcide De Gasperi: “cercate di promettere un po’ meno di quello che pensate di realizzare se vinceste le elezioni”. L’esasperazione del marketing elettorale alla quale ci siamo purtroppo abituati, ha mandato in soffitta il senso della misura. E il guaio è che la sregolatezza delle promesse viene praticata a prescindere dalle condizioni oggettive nelle quali si trova il Paese. Così ha fatto, come abbiamo già ricordato, la Destra per vincere le elezioni dello scorso anno. E oggi la realtà presenta il suo conto spietato a Giorgia Meloni e ai suoi alleati.
“Conto”, o più precisamente “conti” è la parola chiave per interpretare quanto accadrà nelle prossime settimane, fino alla Nadef e, in seguito, nella redazione della legge di Bilancio. I “conti” in questione sono quelli dello Stato, quelli del debito pubblico e dei limiti invalicabili che esso pone alla possibilità di manovrare nella pianificazione delle risorse per il prossimo anno. Ed ecco che la maggioranza deve dire addio a vari capitoli del programma elettorale di Fdi e dei suoi alleati. Che diventano (forse) “obiettivi di legislatura”. Eppure, un anno fa, al tempo delle elezioni, il mutare del quadro economico era già noto. La chiusura del programma di acquisto dei titoli di Stato da parte della Bce, avviato da Mario Draghi per salvare l’area euro, era già avviata e la riattivazione del Patto di Stabilità all’inizio del 2024, dopo la pandemia, era prevista.
Oggi, dunque, il nodo centrale stretto intorno alla spesa pubblica è, in parole povere, il fatto che il debito dello Stato deve reggersi sulle proprie gambe, non può sforare determinati limiti e non arriverà la cavalleria a salvare un Paese il debito del quale, oltre 2.800 miliardi di euro, non sia credibile agli occhi degli investitori, che sono gli acquirenti di quel medesimo debito. I margini per agire in deficit sono dunque ristrettissimi. Più che mai, mentre l’inflazione provoca un aumento dei tassi e, quindi, del peso degli interessi sul debito stesso. Insomma: i vincoli del Bilancio sono assai più nelle mani dei mercati che nelle regole della stabilità europea. Le quali, comunque, contano. Quali che siano.
Quelle del vecchio Patto di Stabilità (che, come abbiamo ricordato, in mancanza di una sua nuova edizione tornerà effettivo a gennaio), o il frutto della trattativa tra gli Stati che dovrebbe condurre a una nuova versione del Patto stesso. Versione che, a sua volta, non è scontato che sia più favorevole delle precedenti. Alcuni commentatori rilevano che il nuovo Patto aumenterebbe la discrezionalità della Commissione nei confronti dei singoli Paesi. Bruxelles potrebbe avere la facoltà di decidere tempi e termini nei quali i singoli Stati debbano compiere aggiustamenti di Bilancio e attenuare gli squilibri macroeconomici. Si potrebbero ridurre, insomma, le competenze nazionali in favore di una maggiore forza della Commissione. Certo, ciò richiederebbe anche delle modifiche ai Trattati che sorreggono l’Unione.
Ma, in definitiva, il futuro non è scritto e l’orientamento della riforma del Patto di Stabilità è ancora incerto. Questo rende i margini di azione nella prossima Legge di Bilancio ancor più ridotti. Ed è la ragione per la quale il Governo ha prodotto, in aprile, un Def assai prudente. Prudenza sulla quale è probabile si attesterà anche la Nadef e, perciò, la legge di Bilancio. Questa è la linea sulla quale Meloni trincera quelli che considera come i suoi punti irrinunciabili: il mantenimento del taglio del cuneo fiscale, un intervento per la Sanità pubblica, non meglio precisate misure per “le famiglie e la natalità”, l’incremento delle pensioni minime. Ma le priorità tra i partiti di Governo al momento paiono diverse e i conti con le opposizioni andranno fatti. Non sarà un autunno tiepido.