L'intervista all'attore
Daniele Vicorito, dal Centro Storico di Napoli al grande cinema: “Voglio raccontare la vulnerabilità”
Ha prestato il volto a Carmine Giuliano, boss di Forcella, in "Mixed By Erry" e sarà in "Uonderbois". L'attore nato e cresciuto nel centro storico racconta la sua carriera, gli esordi, le collaborazioni con Tullio Giordana e Sorrentino, Gian Maria Volonté e la Napoli coolness
Cinema - di Antonio Lamorte
Si avvicinò con il pallone sotto braccio. Giocava in piazza quando vide un mucchio di ragazzini accompagnati dai genitori. Li mettevano davanti a una telecamerina, uno dopo l’altro, e il resto aspettava il suo turno. Daniele non sapeva nemmeno cosa fossero i provini: sapeva solo che gli piaceva il cinema, che certi film lo inchiodavano alla sedia e davanti alla televisione fino a tarda notte che il giorno dopo per alzarsi e andare a scuola ci voleva la mano di dio. “Scusate, posso fare anche io?”. E da allora Daniele Vicorito ha cominciato a fare l’attore, studiato alla scuola di Davide Iodice, attraversato quella Napoli coolness di cui tanto si parla in questi anni – una città che è un cinema, un set all’aperto. Da Un posto al Sole a Gomorra, da La Squadra a Ultras, da Sorrentino a Liberato.
Vicorito ha appena prestato il suo faccione pasoliniano a Carmine Giuliano, boss del cartello camorrista di Forcella, in una scena di Mixed By Erry di Sidney Sibilia. E ha da poco finito di girare Uonderbois, una serie Disney diretta da Andrea De Sica e Giorgio Romano ambientata tra i misteri della città sotterranea e un gruppo di Goonies napulitani, mentre Mimì Il Principe delle tenebre di Brando De Sica è stato appena presentato fuori concorso al Festival di Locarno. Porta in giro – al Nest e a Salerno – il suo monologo teatrale, Il bambino Invisibile, e sarà al Mercadante con Gli Abitanti di Arturo Cirillo. È nato nel Centro Storico, patrimonio UNESCO, patrimonio dell’umanità, generatore automatico di storie e facce. Quando cammina sui Tribunali sembra il sindaco: lo salutano quasi tutti quanti. E nel centro storico vuole continuare a vivere. Come sfondo del cellulare il volto di Gian Maria Volontè.
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C’è grande aspettativa per Uonderboys.
È una serie molto ambiziosa, un po’ surreale ma allo stesso tempo autentica. Anche Mimì è un film un po’ vampiresco. Avevo sempre fatto cose più reali, neorealistiche. Con questi lavori sto attraversando un momento surreale della mia carriera.
Come ha lavorato per costruire questi personaggi?
Un attore si documenta dai libri, dai video, dalle interviste, dai contenuti radiofonici. Questa volta ho pensato alle follie più grandi, a come non sono, anche nel modo più ridicolo. Quando si affrontano progetti del genere non si tratta più di studiare le cose ma di immaginarle.
In entrambi i casi veste i panni di uno degli antagonisti, e non è la prima volta. Percepisce come un rischio la possibilità di restare intrappolato nel ruolo del “malamente”?
Può succedere nel cinema, quando un attore ha avuto la fortuna di riuscire bene in un ruolo che gli propongano altre volte la stessa cosa. Ma non si tratta mai della stessa cosa. Credo che ogni persona abbia mille sfaccettature e così i personaggi che un attore interpreta. Attraverso la documentazione il personaggio prende sempre forme diverse. Sono storie diverse in contesti diversi. E anche la violenza, la cattiveria si manifesta e si interpreta in maniere diverse. Non lo percepisco come un rischio.
In Mixed By Erry di Sidney Sibilia avete dato vita a una fotografia emblematica per Napoli e i napoletani: quella di Diego Armando Maradona nella vasca a forma di conchiglia dei Giuliano. È stata la prima volta che ha interpretato un criminale realmente esistito e non di fantasia.
Mi sono informato, ho letto su Carmine Giuliano e la Napoli di quegli anni. Ho visto video, letto processi. Era una città diversa, queste figure venivano più esaltate. Il loro modo di porsi era diverso da quello della popolazione. Anche quella fotografia era una maniera per dire: siamo potenti.
Ha paura interpretando questi personaggi di celebrare la malavita?
Fino a ora i personaggi che ho interpretato non cadevano in quella retorica. Per me non era celebrare un personaggio ma renderlo per come era.
Crede che il cinema stimoli l’emulazione?
Non siamo tutti preparati a vedere delle cose, non le assorbiamo tutti nello stesso modo. Ci sono delle persone che si fanno influenzare. Penso però che l’avvento dei social ci fa capire ancora di più qual è la realtà e qual è la finzione. Chi si fa trascinare forse non vive nella realtà stessa, è come se non gli bastasse la vita. Penso però anche che sia diverso oggi dal passato, si ha più possibilità di capire, è tutto più chiaro.
Posso dirle che ha una faccia pasoliniana?
Non è la prima volta che me lo dicono. I primi libri che ho letto sono stati quelli di Pasolini. Sono libri che danno la possibilità di capire che c’è sempre una speranza, c’è sempre una luce. Chi vive nell’ombra e legge Pasolini può vedere la luce.
Com’è cominciato tutto?
Ero ai Tribunali, dove sono nato e cresciuto, in piazza San Gaetano. Giocavo a pallone. Ho visto questa calca di persone, genitori che accompagnavano i figli a fare i provini davanti a una telecamera. Mi sono avvicinato e ho chiesto anche io di fare lo stesso. Ho aspettato il mio turno e ho fatto il provino. Alla fine hanno scelto me. E mi sono ritrovato in un progetto internazionale, All the invisible children, con Emir Kusturica, Spike Lee, Ridley Scott. Sette cortometraggi, sette registi. Io ero il protagonista di Ciro, diretto da Stefano Veneruso, un bambino disagiato che vive a Napoli. Dopo di me hanno preso anche mio fratello.
Già le piaceva il cinema?
Sono cresciuto in questa casa molto piccola, guardavo sempre la tv. La notte facevo tardi perché mi piacevano tantissimo i “Bellissimi” di Rete4 e la mattina non mi volevo alzare per andare a scuola. Mi è rimasto impresso un film, ancora ci penso. Non so se era un horror o cosa. Ricordo questo ragazzo che riusciva a fare innamorare tre sorelle che però alla fine capivano che era tutta una manipolazione, lo attaccavano a una sedia e lo torturavano, lo seviziavano. Mi ha spaventato tantissimo, non l’ho più dimenticato, ma non sono mai riuscito a risalire al titolo.
È arrivato a fare il protagonista con Marco Tullio Giordana in Due Soldati.
Lavorare con lui è stato una possibilità in più per crederci. Mi ha colpito molto avere un rapporto semplice con una persona così enorme. Anche con Sorrentino è andata così, quando ho fatto il provino. Quando ho fatto il colloquio, per fare Maradona in È stata la mano di dio, mi ha accolto in questa stanza, mi ha messo a mio agio, abbiamo parlato dell’immagine, cui lui teneva moltissimo. Un grande artista. Tutti i grandi sono sempre semplici. Poi io ho un debole per gli attori: li guardo, li osservo, li studio. Ho una passione sfrenata, forse perché lo sono e voglio continuare a esserlo. Mi piacerebbe moltissimo lavorare con Elio Germano, Pierfrancesco Favino, Luca Marinelli, Tony Servillo. Mi sarebbe piaciuto lavorare con Gian Maria Volonté, conoscerlo, parlargli, stare un po’ in barca con lui. A lui piaceva molto il mare.
Che idea si è fatto di questa grandissima produzione e attenzione filmica su Napoli?
Penso che le potenzialità della nostra città siano sempre difficili da raccontare. È una città potentissima. Poter dare il proprio volto a tanti colori, tante storie, è incredibile. Le mie ricerche non sono mai le stesse ma anche lo stereotipo è qualcosa da cui poter attingere, anche quello va studiato. Il racconto che faccio io sul Bambino Invisibile, che è una storia di riscatto e di emarginazione sociale, può sembrare un cliché ma non lo è. Se raccontiamo la stessa cosa in maniera diversa non è più uno stereotipo.
Cosa vuole raccontare con il suo lavoro?
La vulnerabilità, il riscatto. Qualcosa di forte ma vero, qualcosa che possa servire alla società. Ho visto tanti film che possono migliorare il pensiero, mi piacerebbe tanto fare un film di quel tipo.
Se si guarda indietro, alla strada che ha fatto, le vengono i brividi?
Se ci penso sì. Non è scontato che nella vita possano succedere certe cose, mi emoziona. Ma è una cosa che bypasso subito. È un ragionamento che voglio fare più in là. Ora ho tanta voglia di fare.