Le stragi sul lavoro e in mare
Italia, il paese dove si muore di lavoro e si annega di speranza
Nella prima metà del 2023 sono già 450 le persone che hanno perso la vita mentre si guadagnavano il pane quotidiano. E il Mediterraneo segna il record di morti. La vita non conta più niente
Cronaca - di Mons. Vincenzo Paglia
Ancora un incidente sul lavoro (Brandizzo, nel torinese), ancora vite strappate alla Vita, avremo approfondimenti, inchieste, ricerca del “perché” sia potuto accadere. È tornata alla mente anche a me – allora ero vescovo a Terni – la tragedia della Thyssenkrupp. Purtroppo continua questa incredibile, sconcertante, disumana catena di morti sul luogo di lavoro, a causa del lavoro?
Per quanto tempo, ancora, sarà consentito morire sul lavoro, per il lavoro, di lavoro? Karl Marx (proprio lui!) nel Capitale, parlando delle condizioni delle operaie della Londra dell’Ottocento, usa l’espressione “lavorare a morte”, per denunciare come in quel tempo le persone letteralmente si consumavano e morivano per la fatica. Ma non sta accadendo la stessa cosa anche oggi? Nei primi sei mesi del 2023, le denunce di morti sul lavoro sono 450; 17 ogni settimana, 75 ogni mese. Sarà la volta buona che mettiamo fine a questa tragica catena di morti?
Il rischio dietro l’angolo è sempre l’assuefazione. Come ha detto papa Francesco, qualche giorno fa, proprio riferendosi a Brandizzo, dobbiamo guardare alle persone e le persone “non sono numeri”. Ecco perché queste morti ci toccano. Tutte le morti ci toccano, ma in modo particolare quando persone vengono strappate via alle loro famiglie, ai loro affetti, solo e unicamente perché si trovavano a fare il loro dovere, a guadagnare il “pane quotidiano”. È questo un aspetto particolarmente ripugnante. Inaccettabile. Il lavoro (onesto, neanche a specificarlo…) è un elemento indispensabile nella vita di ognuno di noi.
Come ha ben chiarito la Dottrina Sociale della Chiesa (ma davvero ce ne sarebbe bisogno?), il lavoro è parte fondante dell’identità personale: indica il posto che ognuno assume nella società, è dignità, è fonte di sostentamento e di sicurezza (giusto salario), è fonte di sviluppo per tutta la società, è inscindibilmente connesso con l’identità della persona, con la sua possibilità di realizzazione personale. E invece quando troppo spesso si muore sul lavoro – si muore di lavoro – qualcosa certo non funziona e il lavoro stesso si trasforma in un fattore negativo. Le persone diventano scarti, vengono gettate vie.
Se nel caso di Brandizzo c’è stato un errore – certo sarà l’inchiesta ad accertarlo, ma è indubbio che nei meccanismi di controllo qualcosa non ha funzionato – e se in tutti i casi di troppe morti sul lavoro verifichiamo la presenza di disattenzioni, incuria, sciatteria, poco rispetto delle regole, allora è necessario che tutti noi alziamo la voce per dire che la vita è un bene troppo prezioso per gettarlo proprio mentre si lavora. Cioè proprio nel momento della massima realizzazione, del punto più alto della propria vita, si getta via il bene più prezioso che abbiamo.
È una riflessione amara da compiere. Come dice la Costituzione italiana, la Repubblica è fondata sul lavoro. Le cifre delle vittime sul lavoro, indicano che stiamo scivolando verso una Repubblica fondata sulla morte delle persone. È un’espressione troppo dura? Non credo. Penso alle morti in mare dei troppi disperati che cercano scampo da miserie e conflitti e muoiono vittime della speranza di una vita migliore. Tanti di loro sono minori, donne, persone che le società di origine e le famiglie di origine non sono in grado di tutelare.
Come ci sono troppe morti sul lavoro, così ci sono troppe morti in mare. Ci sono troppe situazioni in cui si potrebbe agire e per incuria si passa oltre. O si passa oltre strumentalizzando le vittime – tanto sono morti – attribuendo loro colpe che non hanno: sono ‘turisti del mare’, buoni-a-nulla, disperati senza speranza… e mentre lo pensiamo (peggio: lo diciamo), stiamo gettando al vento la nostra stessa umanità. È necessario fare di più. Serve una trasformazione profonda della mentalità per attribuire alla vita il valore inestimabile che possiede. Se poi vogliamo entrare in una modalità mercantile di pensiero, diciamo che mettere al centro la prevenzione ci fa risparmiare.
Non solo vite umane ma risorse; i costi della prevenzione sono sempre più bassi di quanto le aziende (e la società) pagano in termini di danno economico. Se la ‘ragioneria’ farà capire che prevenire è meglio, allora evviva la ‘ragioneria’ perché servirà a salvare delle vite. In ogni caso è necessaria una mentalità nuova, fatta di creatività e passione. Diamoci delle occasioni per ripensare tutto l’assetto del lavoro e della società in cui viviamo. Una società ispirata al primato della vita e alla sua tutela – negli ospedali, a favore dei minori, delle famiglie, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, a favore degli anziani, dei migranti, dei malati, di chiunque – non è una società ‘etica’, è invece e soprattutto una società umana.
Se invece fondiamo le attività sul risparmio egoistico, sull’accumulo di beni individuali, sull’indifferenza verso gli altri, allora abbiamo una società delle vite scartate. Questo incidente apra una riflessione profonda su noi stessi, su chi siamo, sulle regole e sugli atteggiamenti da avere e da assumere. La trasformazione epocale cui stiamo assistendo nelle modalità di lavoro, la guerra in corso che ci sta cambiando e sta intaccando tutto un modello di sviluppo, le tecnologie (ancora non sostituiscono operai al lavoro sui binari…), le disparità economiche e sociali, si affrontano con una società coesa e determinata a valorizzare sempre, comunque, dovunque, la vita umana. Non è solo l’unico valore che abbiamo. È il primo, il più importante. Per me credente, per noi credenti, il bene che Dio ci ha dato per metterlo a frutto e passarlo alle prossime generazioni. Non per finire uccisi sui binari nella notte come a Brandizzo. No, davvero.