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“Ecco come mandare a casa la destra”, la ricetta di Emanuele Fiano

“Ecco come mandare a casa la destra”, la ricetta di Emanuele Fiano

Memoria e identità, un binomio inscindibile nella fondazione di una cultura politica di sinistra. L’Unità ne discute con Emanuele Fiano, già deputato del Partito democratico. Nel 2017 è stato promotore di un disegno di legge sull’apologia del fascismo. Oggi è il Presidente del nuovo Comitato scientifico della Fondazione Fossoli. Politico e saggista, ricordiamo il suo libro più recente, Ebreo. Una storia personale dentro una storia senza fine (Piemme, 2022).

Salario minimo, stop all’incremento della spesa militare, un più marcato profilo pacifista. Il “nuovo Pd” svolta a sinistra?
Intanto non accomunerei le due cose: la questione del salario minimo è un punto centrale e decisivo per una nuova stagione di politiche sul lavoro, quanto mai necessaria, soprattutto per quei settori come l’agricoltura, il turismo o la logistica, ad esempio, dove troppo spesso le retribuzioni sono sotto il livello della dignità. E la dignità nel lavoro, è un elemento centrale di tutta la storia del pensiero di origine socialista, e non è un valore negoziabile, non può diventare merce di scambio. È una misura che, ovviamente, deve essere presa senza però generare ritorni negativi sulla contrattazione e sulla centralità della stessa e che deve essere accompagnata, non a caso, dalla riforma delle rappresentanze e da politiche fiscali adeguate verso i lavoratori. Altra cosa la questione delle spese militari. Su queste il Pd ha preso un impegno preciso, verso il paese, l’Europa e i partner internazionali, di raggiungere un determinato livello di spesa entro il 2028, con l’obiettivo finale della difesa comune, cosa che permetterebbe ampi margini di risparmio Ora tornare indietro su ciò non fa del Pd un partito “più di sinistra” ma meno responsabile secondo me, e questa, non mi pare una cosa di sinistra. Altra cosa, come mi pare si stia facendo, anche se immagino che ne discuterà la Direzione Nazionale, è condividere il punto di vista del Cancelliere socialdemocratico Scholz, il quale, anche sulla spinta della delicata situazione economica tedesca, propone un allungamento dei tempi, di due anni, per il raggiungimento degli accordi presi alla Nato. Questa è una possibile scelta politica di gestione dei tempi di attuazione che non nega le premesse ma esamina la realtà economica e sociale con trasparenza e capacità di visione complessiva.

Nel dibattito a sinistra, e dentro il Pd, una delle parole più gettonate è “identità”. Ma se non viene sostanziata politicamente resta un esercizio retorico. Provi lei a declinarla.
Avere un’identità significa avere una visione del “verso dove” si voglia andare, mossi da valori e principi chiari e declinati in criteri concreti e azioni conseguenti, attrezzati con una cultura politica viva e condivisa e uno “strumento” valido e efficiente, cioè un partito, capace di determinare e sviluppare la rappresentanza democratica della società. Per me è chiaro che questa visione è quella del socialismo democratico e del laburismo europeo, capace di coniugare libertà individuali e questione sociale, democrazia politica e democrazia economica, così ben sintetizzata dalla “triade” libertà, giustizia e solidarietà. Una cultura politica che, come dimostrano i tanti governi in Europa che vi si rifanno, è viva e vegeta e capacissima di innovarsi e che si basa su profonde e robuste radici che hanno fatto la storia del nostro continente e non solo.

A proposito di definizioni abusate. Nella hit c’è “riformista”. Parola che spesso fa il paio con “moderato”. Lei si sente tale?
Strano paese il nostro, dove si scambia un aggettivo per un sostantivo! E riformista è questo, un aggettivo che specificava una visione e una pratica del socialismo. Punto. Gli unici che possono fregiarsene come sostantivo sono i “riformati” cristiani! Fare riforme, cioè leggi, non è un’identità in sé: vale quello detto prima, cioè quale visione, quale cultura e quale rappresentanza determina il nuovo atto legislativo. C’è una frase di Claudio Treves, tra i fondatori del Partito Socialista e direttore dell’Avanti! che lo spiega benissimo: “I socialisti riformisti sono prima di tutto dei socialisti: il che vuol dire che non sono empiristi dalle saccocce piene di rimedi pronti per tutti i mali. Il riformismo è il metodo onde si applicano le idealità animatrici del socialismo ai problemi della vita quotidiana, non un emporio di riforme a 49 centesimi il pezzo – liquidazione di fine stagione”. Ecco, in questo senso sono assolutamente riformista e tutt’altro che “moderato”.

C’è chi paventa il rischio di una deriva movimentista e minoritaria del Partito Democratico.
Quando abbiamo dato vita al Pd, nel 2007, l’obiettivo era chiarissimo: unire le grandi culture progressiste e democratiche, figlie dell’umanesimo e del solidarismo in un unico strumento democratico per dare al paese una forza progressista capace di governarlo e rappresentarlo nel modo più giusto, equo e condiviso. Con una “vocazione maggioritaria”, cioè capace di essere maggioranza, in ogni settore e livello della società italiana. Esattamente ciò che fece la socialdemocrazia tedesca a Bad Godesberg nel 1959. Un’idea coraggiosa e innovativa. Quindi, non esserci per esserci, magari rinchiusi in un perimetro difensivo, comodo ma minoritario, ma esserci per fare, assumendosi rischi e responsabilità. Anche attraverso un’azione diretta nella società e non solo nelle istituzioni, come si diceva una volta “di lotta e di governo”. Del resto, come affermava Riccardo Lombardi e come ci insegna la storia delle grandi riforme dell’Italia repubblicana, il valore e la vera legittimità delle stesse è nei movimenti di massa che le richiedevano e le rivendicavano. Dal lavoro ai diritti civili, dalle garanzie sociali al diritto al sapere.

La butto giù seccamente. Il rinnovamento del Pd può ridursi ad un cambio, peraltro contrastato e contestato internamente, della classe dirigente?
Il Pd è, lo dice il nome stesso, una comunità democratica, quindi aperta e contendibile attraverso i suoi strumenti e momenti di confronto statutari e di vita politica. Per questo non parlerei di rinnovamento ma di vita democratica, in costante progressione, basata sul confronto delle idee e nel rispetto reciproco tra chi le esprime e le rappresenta. La classe dirigente è valida se è espressione di questo, non per semplici profili personali. Per questo dobbiamo affrontare, insieme e serenamente, un problema non più rinviabile nelle regole delle nostre Primarie, perché risultati agli antipodi tra iscritti e gazebo aperti a tutti possono portare alla dissoluzione della nostra comunità politica e al senso di appartenenza alla stessa.

Torna in voga il “campo largo”. Siamo alle prove generali, anche in vista delle amministrative del prossimo anno, di un asse Schlein-Conte?
Quello che sta tornando in voga è la questione di quale sia il “campo del Pd” e il suo complesso di visioni, idee, riferimenti e programmi, grazie al quale, a fronte di regole elettorali che lo richiedono, si possano costruire alleanze coerenti e competitive. Questo è il punto fondamentale, tanto più che la grande scadenza elettorale dell’anno prossimo è quella per l’Europa dove la regola è il proporzionale puro; quindi, dove non sono necessari cartelli o coalizioni.

Il profilo di una forza politica, e di una coalizione, si definisce anche rispetto all’avversario con cui deve fare i conti. Che destra è quella che sta governando l’Italia?
Fermo restando che a definire prima di tutto una forza politica è se stessa, la sua rappresentanza e la sua visione, e solo successivamente i propri avversari, quella che abbiamo di fronte è una destra tutt’altro che omogenea e lineare. È un blocco forzato dalla legge maggioritaria, dove prevale una cultura sovranista e populista, e qualche nostalgico, che si giura reciproca fedeltà ma se le dà di santa ragione ogni giorno. Basta leggere le cronache: dai provvedimenti economici come la tassazione degli utili delle banche alla collocazione in Europa, dalle questioni sociali a quelle dell’immigrazione, dall’attuazione del Pnrr fino alla castrazione chimica. E i numeri del loro consenso, in diminuzione, dimostrano che finita la propaganda la montagna ha partorito un topolino, come si comincia a vedere per quel che riguarda la prossima legge di bilancio. Non è invincibile, anzi! Se noi non ci limitiamo alla semplice critica, sacrosanta per altro, e ci impegniamo a definire un nuovo e determinato programma per l’Italia e per l’Europa, a prescindere da Meloni & soci, già il prossimo giugno molto potrebbe cambiare. In bene, aggiungo.

Nel 2017, lei è stato promotore di un disegno di legge sull’apologia del fascismo. E in questa apologia c’è una “dose” altissima di antisemitismo. Una “storia senza fine”, per riprendere il titolo del suo libro: Ebreo. Una storia personale dentro una storia senza fine.
La mia proposta di legge in merito alla “questione” dell’apologia di fascismo non muoveva e non muove da furore ideologico, come qualcuno vuole far credere, ma dalla consapevolezza e dalla conoscenza di un problema non risolto nel nostro paese, che viene da lontano e che dà i suoi frutti ancora adesso. Sul fascismo non la raccontiamo tutti uguale o sbaglio? Non faccio esempi perché non basterebbe questa intervista, e coinvolgerebbe qualche figura istituzionale, ma c’è, sul passato, una vulgata che attribuisce al fascismo solo la colpa assoluta delle leggi razziali, sacrosanta ovviamente, ma dimenticandosi delle colpe gigantesche del fascismo, nei confronti complessivamente della difesa della libertà nel nostro paese, e della collaborazione devastante con i nazisti; e poi però c’è l’oggi, il quotidiano, la distillazione continua di uno sdoganamento culturale di parole, messaggi, simboli, di un neofascismo rinvigorito, interessato in questa stagione di governo di centrodestra a uscire da una storia dove sono stati relegati, per fortuna, nell’angolo, dalla nostra costituzione antifascista. Questo è purtroppo il tempo in cui pensare a cosa ne sarà della memoria comune in questo paese, quando, speriamo tardissimo, sparirà l’ultimo testimone; sarà allora, e lo è già adesso, la nostra generazione e quelle successive a doversi incaricare di tirar fuori la lezione contemporanea da quelle vicende di fascismo, nazismo e antisemitismo. La lezione sui valori fondamentali per cui battersi. La battaglia tra chi si batte per l’uguaglianza e chi professa ancora fede nelle ideologie totalitarie non finirà mai, per me è la battaglia per cui vale la pena vivere e fare politica.