La nuova stretta
Perché la Bce ha affossato la manovra della Meloni
“Occorre un tempestivo ritorno dell’inflazione al 2%. L’annuncio dell’Eurotower piomba su Palazzo Chigi come un macigno sulla finanziaria
Politica - di David Romoli
Oggi pomeriggio governo e maggioranza inizieranno ad affrontare sul serio lo scoglio della legge di bilancio. Alle 18.30 è in agenda il primo incontro tra governo e partiti di maggioranza e stavolta la premier non potrà evitare la lista dei desideri, molti dei quali impossibili, che i suoi alleati squaderneranno. L’elenco è già in buona misura noto così come la scarsità di risorse a disposizione.
Ma a rendere più difficile il già non facile compito del ministro dell’Economia Giorgetti sono le molte carte coperte sul tavolo. Incognite tutte destinate a incidere a fondo sull’economia italiana ma anche sulla manovra stessa ma nessuna delle quali controllabile dall’Italia. Un pericoloso gioco al buio. La prima incognita riguarda la stretta della Bce, il continuo rialzo dei tassi d’interesse come strategia contro l’inflazione: proseguire su quella strada equivale per l’Italia all’aggravarsi della minaccia di recessione. Il campanello d’allarme del calo del Pil dello 0,4% dal primo al secondo trimestre è stato sonoro e ha già reso più complicato il percorso della manovra. Nuovi rialzi renderebbero il rischio sempre più incombente.
La presidente della Bce Lagarde ha affrontato la questione due giorni fa ma senza sciogliere la suspense. Ha ammesso che la Banca aveva “sottovalutato sia la dinamica dell’inflazione che la sua persistenza”. Si è vantata di aver però impostato poi la strategia più drastica: “Abbiamo aumentato i tassi per un totale di 425 punti base in 12 mesi: un ritmo record in tempi record”. Il costo del record è la recessione in Germania e la flessioni dei Pil in tutta l’eurozona. La presidente intende lo stesso “raggiungere un tempestivo ritorno dell’inflazione al 2%”. Al momento l’inflazione è in media europea al 5,3%. Per rientrare nel parametro del 2% in tempi stretti saranno necessari nuovi rialzi. Lagarde, a differenza del passato, non li ha però annunciati e si sa che la preoccupazione per la flessione dei Pil nazionali è forte sia a Francoforte che a Bruxelles.
Dunque non è esclusa almeno una pausa che permetta di riprendere fiato. Il governo italiano, che non ha mai nascosto il dissenso dalle scelte della Banca, ci spera ma di certo non c’è niente e l’ombra continua a gravare sui conti pubblici e sui margini di agibilità, comunque stretti, della manovra. La seconda incognita, più a lungo termine ma anch’essa fondamentale per la manovra oltre che per l’orizzonte dell’economia italiana, è la trattativa sul nuovo patto di stabilità. L’Italia, in fondo, non sa bene cosa sperare. Senza un accordo rientrerebbero in vigore le vecchie regole, soffocanti ma, come segnala il gruppo europeo della Lega, mai applicate alla lettera. Tanto che gli eurodeputati del Carroccio preferirebbero la resurrezione di Maastricht alla sua sostituzione con norme meno soffocanti ma anche più rigide nell’applicazione.
Ma nel concreto la conclusione, nell’uno come nell’altro caso, è perentoria: senza possibilità di una nuova proroga della sospensione del patto, categoricamente esclusa per l’ennesima volta dalla Commissione europea pochi giorni fa, e con il tetto del rapporto deficit/Pil confermato al 3% i margini di spesa per l’Italia saranno nei prossimi anni peggio che esigui. La sola via d’uscita sarebbe la concessione di quella sottrazione delle spese militari e per gli investimenti strategici che l’Italia chiede sgolandosi da mesi. La porta è stretta, le possibilità comunque molto scarse. Il governo teme però che diventerebbero inesistenti a fronte di una legge di bilancio di manica larga, che facesse ricorso al deficit per supplire ai chiari di luna che affliggono Giorgetti. Dunque è deciso a usare l’austerità come bussola ma senza alcuna garanzia.
L’ultima carta coperta è il Pnrr. Lunedì il ministro responsabile per l’attuazione del Piano, Raffaele Fitto, ha incontrato a Bruxelles il capo della task force della Commissione sul Recovery Cèline Gauer. Il primo obiettivo era ottenere garanzie sull’erogazione della terza e quarta rata, pari dopo le previsioni a 18,5 e 16,5 miliardi. Quei 35 miliardi sono inscritti nel bilancio. Se non arrivassero in tempo, entro l’anno, bisognerebbe trovare fondi per supplire alla falla e nella situazione data non sarebbe un gioco. Cineserie a parte, Fitto non ha ottenuto le assicurazioni richieste. La terza rata, quella in ballo sin dalla fine di febbraio, è nel classico “iter burocratico”.
Dovrebbe arrivare entro la fine del mese e in ogni caso per la fine dell’anno sarà in cassa la terza rata. Per la quarta le cose sono meno garantite: i passaggi burocratici europei dovranno essere conclusi entro ottobre oppure i 16 miliardi non arriveranno in tempo. Ma queste in fondo sono solo schermaglie, pur se importantissime per la manovra e i conti di quest’anno. La partita vera, quella sui 144 progetti su 349 che l’Italia chiede di rivedere e rimodulare, di fatto quasi una riscrittura del Pnrr, deve ancora iniziare. A fronte di queste ombre, di proporzioni ancora incerte, le bizze di Tajani sulle privatizzazioni e di Salvini sulle pensioni sono poca cosa ma è con queste che Meloni e Giorgetti dovranno per prima cosa vedersela a partire da oggi.