80 anni fa

Armistizio dell’8 settembre 1943, quali furono le conseguenze

La fuga del re e del governo, la viltà degli alti ufficiali, un popolo lasciato in balia dei nazisti. Era scomparsa l’Italia, lo Stato e tutte le sue strutture amministrative.

Editoriali - di Simona Colarizi - 8 Settembre 2023

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Armistizio dell’8 settembre 1943, quali furono le conseguenze

Vissuto dai politici e intellettuali di allora come l’evento più distruttivo e doloroso della storia d’Italia dall’unità in poi, l’8 settembre 1943 è ancora oggi al centro di un intenso dibattito storiografico incentrato sul tema dell’identità nazionale e dello Stato-nazione. All’origine è la decisione del re, Vittorio Emanuele III, dello stato maggiore e delle più alte cariche pubbliche di continuare una guerra farsa al fianco dell’alleato tedesco dopo la destituzione di Mussolini in quel fatidico 25 luglio quando il duce era stato arrestato e il generale Badoglio aveva assunto il ruolo di capo del governo.

Una decisione non condivisa dal più autorevole tra i congiurati fascisti, Dino Grandi, che aveva invece proposto al sovrano di dichiarare immediatamente la fine delle ostilità. Non era solo il paese intero ad agognare la pace, ma era anche quanto si attendevano gli inglesi e gli americani, convinti che l’eliminazione del dittatore avesse rimosso ogni ostacolo alla resa dell’Italia, sconfitta su tutti campi di battaglia. Eppure il monarca e i suoi consiglieri avevano scelto un’altra soluzione che si sarebbe rivelata fatale per gli italiani. Aveva prevalso la paura di Hitler, pronto a far intervenire le truppe tedesche già presenti in Italia per consumare la sua vendetta contro il re traditore. Troppo lontane dalla capitale erano invece le armate angloamericane per garantirgli una protezione sicura, anche se naturalmente Vittorio Emanuele aveva intensificato i contatti già in corso, aprendo la trattativa sulla resa dell’Italia.

Il Fuhrer però desisteva da un’immediata rappresaglia, ben consigliato dal generale Kesserling, consapevole che le due divisioni tedesche impegnate in Sicilia non erano sufficienti a contenere l’avanzata degli angloamericani già sul punto di sbarcare sul continente. Meglio fingere di credere alla lealtà degli italiani, come aveva dichiarato Badoglio il 25 luglio con la frase a chiusura del suo messaggio: «La guerra continua al fianco dell’alleato tedesco». Per tutto il mese di agosto, ben otto divisioni tedesche venivano inviate in soccorso del fedele “alleato” italiano; in pratica i nazisti procedevano a una vera e propria occupazione della penisola senza sparare un colpo. Così blindata l’Italia sarebbe diventata un bastione difficile da espugnare per gli eserciti di Eisenhower e di Alexander che per risalire dalla Sicilia al Brennero avrebbero impiegato un anno e otto mesi di una terribile guerra con immani perdite di vite umane e di distruzioni su tutto il territorio.

Per l’intero mese di agosto il re era rimasto in attesa, sperando invano in uno sbarco a Nord di Roma degli eserciti americani; uno sbarco che proprio la presenza sempre più massiccia delle truppe tedesche rendeva ogni giorno più improbabile. Dall’altra parte cresceva l’impazienza degli alleati che dopo tanti rinvii iniziavano a diffidare della buona fede di Vittorio Emanuele e dei suoi generali, solo a parole pronti ad arrendersi. Alla fine il 3 settembre il generale Castellano firmava a Cassibile l’armistizio, anche se Badoglio chiedeva agli alleati una dilazione di qualche giorno prima di divulgare la notizia.

In teoria lo stato maggiore delle Forze Armate avrebbe avuto tutto il tempo di predisporre un piano dettagliato per onorare le clausole della resa, ma in quelle giornate convulse il re e il suo governo restavano immobili, in preda al panico. Non restavano immobili invece gli antifascisti che pure durante tutti i quarantacinque giorni erano rimasti alla finestra, timorosi di interferire nella trattativa in corso tra lo Stato italiano e gli angloamericani. Adesso però il Comitato delle Opposizioni Antifasciste, trasformato in Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), non voleva più aspettare, ben consapevole di quali e quante truppe tedesche fossero ormai presenti nel paese. L’8 settembre, quando alla fine Eisenhower comunicava via radio a tutto il mondo la resa dell’Italia, ovunque i partiti antifascisti offrivano ai comandanti delle piazzeforti il sostegno dei loro militanti: militari e civili insieme, da schierare contro il nemico nazista, deciso ad annientare l’Italia che aveva tradito la guerra di Hitler.

La sola idea di un popolo in armi veniva vissuta però come il peggiore degli incubi nelle alte sfere militari e civili, di provata fede monarchica, che avevano aderito al regime che garantiva l’ordine e la disciplina delle masse. Caduto il fascismo, nulla era cambiato con il governo Badoglio che aveva usato il pugno di ferro contro le manifestazioni popolari e tenuto a freno gli antifascisti; quanto bastava per illudere i generali e gran parte della classe dirigente filo fascista su una rassicurante continuità tra il passato e il presente. Tutto crollava invece in quella notte dell’8 settembre 1943 quando senza comunicare direttive coerenti ai comandanti delle piazzeforti italiane nella penisola e sui fronti guerra, il re, tutto il governo e la famiglia reale fuggivano a Brindisi nelle retrovie alleate.

Era quasi un viatico alla viltà degli alti ufficiali che si arrendevano ai tedeschi entrati da padroni, armi spianate, nelle aree militarizzate. Non si materializzava dunque un De Gaulle italiano, anche se vanno evidenziati i gesti eroici di alcuni ufficiali che rimasti come tutti gli altri senza ordini da Badoglio, avrebbero guidato i loro soldati e i cittadini nella resistenza contro l’esercito degli invasori nazisti. Avveniva a Eboli dove al suo rifiuto di arrendersi, il generale Gonzaga veniva fucilato dai tedeschi; resistevano i comandanti delle piazzeforti a Piombino, al Piccolo San Bernardo, a Susa e a Gorizia, dove l’alto ufficiale in servizio era costretto alla fine a consegnare ai nazisti tutte le truppe della Divisione “Giulia”, deportate in Germania. Quanto al destino di Roma, i generali Calvi di Bergolo e Giuseppe Cordero di Montezemolo, combattevano contro i tedeschi insieme a gruppi di civili antifascisti in una lotta sanguinosa, costata un alto numero di morti.

Fuori dall’Italia, è rimasto tristemente famoso il massacro di 5000 tra soldati e ufficiali della Divisione “Acqui” che per cinquanta giorni non si erano arresi. Per il resto, centinaia di soldati e ufficiali, intrappolati nelle piazzeforti occupate dai nazisti, spinti dalla paura di finire nei vagoni piombati diretti in Germania, cercavano una via di fuga disperata che si scontrava con la realtà dell’Italia divisa in due; un paese ormai solo un fronte di guerra tra i tedeschi, padroni dei territori al Centro e al Nord, e gli alleati ancora fermi nel Mezzogiorno, a circa trecento chilometri da Roma. Fame, freddo e paura erano i fattori che spingevano i più a entrare nelle bande partigiane che i militanti antifascisti stavano cercando di organizzare. La resistenza che iniziava da qui, avrebbe cancellato la vergogna dell’8 settembre, ma su questa ferita profonda non poteva cadere il silenzio.

Era scomparsa l’Italia, era scomparso lo Stato e tutte le sue strutture amministrative: non esisteva più un governo legittimo al Sud, non quello del re non riconosciuto dai CLN e neppure dagli angloamericani che solo nella primavera del 1944 avrebbero dato il loro nulla osta all’esecutivo di Badoglio, allargato però alla partecipazione dei partiti antifascisti; una legittimazione estesa di fatto al successivo governo guidato da Bonomi quando nel giugno, dopo la liberazione di Roma, Vittorio Emanuele III si ritirava a vita privata. Non esisteva più un governo legittimato dagli italiani al Nord dove Hitler aveva consentito a Mussolini di creare uno Stato fantoccio, quella Repubblica sociale italiana, mutilata del Friuli Venezia Giulia annesso al Terzo Reich, dotata di un esercito che serviva ai nazisti solo per proteggere le retrovie dei loro eserciti dagli attacchi dei partigiani. Tedeschi, inglesi e americani erano dunque le uniche autorità a dettare legge sul destino degli italiani.

In quelle cupe giornate di settembre, «tutto quanto le generazioni italiane avevano da un secolo in qua costruito» era distrutto irrimediabilmente, scriveva Croce sul suo diario. Con accenti ancora più amari, il giurista Satta nel suo De Profundis (Cedam, 1948 e poi Adelphi, 1980), scritto a caldo tra l’autunno del ’43 e la primavera del ’44, definiva la tragedia dell’8 settembre come la “morte della patria”: nulla restava dell’Italia «senza virtù, invisa ai propri figli», disprezzata e calpestata dallo straniero nell’indifferenza di un popolo sbandato e passivo che «dalle armi altrui» aspettava la restaurazione della vecchia Italia. Si era così conclusa la storia dei vent’anni fascisti, la storia di una sconfitta che «come tale dobbiamo affidare alle generazioni future». Note così pessimiste che solo sul finale del libro mostravano un po’ di speranza grazie a chi nell’azione partigiana ritrovava se stesso e «dalle macerie della patria sfida i fati per l’avvenire».

Queste riflessioni di Satta venivano presto dimenticate nell’euforia della liberazione e per lo più ignorate dalla storiografia resistenziale, tutta proiettata a valorizzare la lotta di liberazione nazionale degli antifascisti, la nuova classe politica dell’Italia che aveva chiuso i conti con la monarchia e con le vecchie èlite liberali. Solo nel 1996 – a quarant’anni dal referendum istituzionale e dalla Costituente – Ernesto Galli della Loggia riproponeva le riflessioni di Satta in un lungo saggio dal titolo La morte della patria (Laterza, 1996). Immediata la polemica tra gli storici ma anche tra i politici fino al presidente della Repubblica Ciampi che durante il suo mandato – 1999-2006 – in numerosi discorsi pubblici respingeva indignato il “revisionismo” di Galli della Loggia: l’8 settembre non aveva segnato la morte della patria, ma la rinascita della patria dopo vent’anni di fascismo, grazie allo slancio patriottico dei partigiani che si erano battuti per la salvezza della nazione. La resistenza, insomma, interpretata come secondo Risorgimento, garantiva la continuità dello Stato unitario, fondato dai padri risorgimentali e risorto nella nuova Italia repubblicana.

Tuttavia Satta e dopo di lui Galli della Loggia avevano aperto la questione cruciale dell’identità nazionale, una questione ancora irrisolta nel ’45 dopo vent’anni di regime fascista che aveva cercato di nazionalizzare le masse italiane con la fascistizzazione forzata dell’intera società. Identificarsi emotivamente e ideologicamente nella patria significava identificarsi con lo Stato-nazione, un processo che malgrado la nascita dello Stato unitario era rimasto incompiuto, come si era espresso Massimo D’Azeglio, uno dei padri del Risorgimento: «fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani». L’8 settembre aveva mostrato tutta la debolezza dei vertici statali dal re ai militari, ai ministri, ai burocrati dell’amministrazione pubblica, incompetenti, inadeguati a gestire l’emergenza, doppiogiochisti, fino all’ultimo minuto così pavidi e spaventati da dimenticare persino di portare con sé nella fuga da Roma il testo dell’armistizio. Non aveva fermato i fuggitivi né il senso di responsabilità verso i militari e i cittadini, lasciati in balia dei nazisti, né il senso dell’onore e della lealtà nei confronti degli alleati con i quali appena cinque giorni prima avevano firmato la resa.

Eppure erano proprio loro a incarnare quello Stato nazionale che gli italiani avrebbero dovuto amare e nel quale si sarebbero dovuti riconoscere. Non può stupire lo scarso radicamento dell’idea di nazione nella maggioranza degli italiani, anche se esisteva una minoranza che proprio la fede nei valori del Risorgimento aveva spinto a prendere le armi contro i nazisti e i loro alleati fascisti. Non erano certo marginali nella resistenza le formazioni partigiane autonome, guidate quasi sempre da ufficiali dell’esercito regio, o le formazioni azioniste così numerose da essere seconde solo alle Brigate Garibaldi dove militavano comunisti e socialisti. Se la loro forza morale sarebbe stata fondamentale per la rinascita dell’Italia, nell’immediato non bastava a suscitare l’appoggio attivo ed entusiasta di tutta la popolazione alla lotta armata – come dimostra il dibattito storiografico ancora oggi vivace sulla estensione della “zona grigia”.

Eppure in qualche misura mi pare ingenerosa la descrizione a tinte fosche di Satta sulla passività, l’indifferenza, la mancanza di carità, il disfattismo di un intero popolo, lasciato solo e senza guida dai governanti. Nel suo De profundis si possono cogliere gli stessi accenti spregiativi così frequenti tra i tanti intellettuali antifascisti di vario colore politico che da sempre avevano espresso analoghi giudizi sul vuoto morale e civile degli italiani. Era avvenuto al momento dell’avvento al potere del fascismo nel ’22, quando le masse e la maggioranza delle classi dirigenti si erano piegate al dittatore. Gobetti aveva indicato nella resa dello Stato liberale l’“autobiografia di una nazione”, una definizione che sarebbe stata ripetuta all’infinito.

Gli avevano fatto eco nel ’23 Giustino Fortunato e Salvemini: «È tutto un fondo di immoralità inconscia e cinica»; «Il popolo non sente le ragioni morali…non si sente affatto oppresso dall’intolleranza, né disgustato dal servilismo». Anche Gramsci aveva parlato di un “popolo di scimmie” che vociavano a vuoto al seguito del più rumoroso e vanitoso primate; masse «informi, ancora polverizzate in un brulichio animalesco di individui senza disciplina e senza cultura, ubbidienti solo agli stimoli del ventre e delle passioni barbariche» (“Avanti!”, 1919). Naturalmente, si riferiva solo alle classi borghesi, piccolo borghesi e ai contadini analfabeti, dando per scontata la “moralità” della classe operaia.

Al di là del moralismo degli intellettuali, in ogni epoca storica fustigatori dei costumi, le amare riflessioni sugli italiani non assolvevano dalle sue colpe la classe dirigente liberale che nel timore della sovversione, aveva privato troppo a lungo il popolo dall’esercizio di una vera cittadinanza. Negli anni del regime poi i governanti fascisti non avevano certo contribuito a colmare il vuoto morale e materiale degli italiani, ancora afflitti dopo venti anni da alti tassi di analfabetismo, di povertà, di abbandono. I valori della libertà e la coscienza dei diritti che pure in epoca prefascista le organizzazioni politiche socialiste, cattoliche e democratiche, tra mille contraddizioni, avevano seminato, erano stati soffocati dal messaggio “credere, obbedire e combattere” che aveva imbrattato gli edifici del regime in tutta Italia.

Ma con l’8 settembre lo slogan fascista aveva perduto ogni significato: non c’era più nulla in cui credere e per cui combattere, nessuno a cui obbedire. Logico che nelle masse prevalesse il disorientamento, la paura, l’istinto a chiudersi nelle proprie case per non sentire e non vedere, lasciando che i “potenti” si scannassero tra loro, pronte però a piegare la testa ai nuovi padroni chiunque essi fossero. La stessa Chiesa invitava a ubbidire alle autorità (ma quali?) raccogliendosi in preghiera per sopravvivere al tempo crudele delle vendette, delle stragi, dei bombardamenti, della fame, del terrore, senza perdere la speranza che la tempesta finisse presto. Bastava avere fede in Dio, nella Divina Provvidenza e nel Pontefice, l’unico potere riconosciuto da milioni di italiani dopo il disfacimento dello Stato l’8 settembre.

Troppo deboli erano ancora i partiti antifascisti, messi fuori legge per un ventennio dal regime fascista che nel suo percorso verso il totalitarismo aveva reso impenetrabile il paese a ogni voce di dissenso. La guerra e la sconfitta avevano portato alla crisi del fascismo, come era emerso il 25 luglio dal tripudio popolare per la caduta del dittatore; ma andavano ancora ricostruiti i legami tra il paese e gli antifascisti che appena ricomparsi sulla scena politica, rivendicavano la guida della nazione con una sola voce e con un solo obiettivo: liberare l’Italia dai nazifascisti. La resistenza sarebbe stata il terreno sul quale legittimarsi agli occhi degli italiani e agli occhi degli alleati come la nuova classe politica antifascista, pronta a dare la vita per riscattare la nazione dalla colpa della guerra fascista.

8 Settembre 2023

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