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Storia dell’altro 11 settembre: quando nel 1973 USA e Pinochet deposero Allende in Cile

Storia dell’altro 11 settembre: quando nel 1973 USA e Pinochet deposero Allende in Cile

Alle 7 del mattino di martedì 11 settembre 1973, il generale Javier Palacios, incaricato dalla Giunta che guidava il colpo di Stato contro il governo Allende di espugnare il palazzo presidenziale, la Moneda, ordinò a un reparto di carri armati di dirigersi verso il Palazzo. I tanks traversarono il centro della città, tre di loro si dislocarono di fronte alla Moneda, gli altri si disposero agli angoli delle strade principali. La tragedia del Cile cominciò in quel momento.

Mezz’ora dopo si levarono in volo gli aerei di fabbricazione britannica Hawker Hunter, incaricati di bombardare e ammutolire tutte le radio non controllate dai militari ribelli. Ai piloti sfuggirono però alcune emittenti: Radio Magallanes, Radio Corporaciòn, Radio Portales. Quelle da cui, nel corso della mattinata di sangue, il presidente Salvador Allende si sarebbe rivolto più volte alla popolazione. La sollevazione era iniziata all’alba nella città costiera di Valparaiso. Allende era stato messo subito al corrente della rivolta ma, convinto di poter contare sul lealismo del grosso delle Forze Armate, aveva deciso lo stesso di recarsi alla Moneda.

Quando parlò per la prima volta alla radio era ancora ottimista. I documenti desecretati pochi giorni fa dall’amministrazione Biden, quelli che confermano il ruolo decisivo svolto dagli Usa e dalla Cia nel supportare il golpe, affermano chiaramente che ancora nelle prime ore di quel giorno il presidente era convinto di poter evitare il colpo di Stato. Contava soprattutto sul comandante in capo dell’Esercito, Augusto Pinochet, nominato esattamente 15 giorni prima in sostituzione del precedente comandante e vicepremier Carlos Prats e considerato di sicura lealtà democratica. L’illusione durò sino alle 8.42, quando il generale Guillard lesse alla radio l’ultimatum dei golpisti: Allende aveva tempo fino alle 11 per arrendersi e cedere il potere a una giunta composta dallo stesso Pinochet e dai comandanti di Aviazione, Marina e Carabinieri: il generale Leigh Guzman, l’ammiraglio Merino Castro.

Il comandante Mendoza Duran. Allende respinse l’ultimatum e propose invece, invano, una trattativa con la Giunta alla Moneda. I Carabinieri che presidiavano il palazzo presidenziale passarono in massa ai golpisti. In quella mattinata la tv controllata dai ribelli trasmise solo cartoni animati e la radio diffuse in continuazione marce militari interrotte dalle comunicazioni della Giunta che proclamò lo stato d’assedio e il coprifuoco a partire dalle 18 del pomeriggio. Chiunque fosse stato sorpreso per strada sarebbe stato passato per le armi sul posto. In caso di difesa armata, cinque “marxisti” sarebbero stati fucilati per ogni militare golpista ucciso. Alle 10.15 il presidente parlò per l’ultima volta alla radio: il suo storico messaggio è ancora oggi una delle più lucide dichiarazioni di fede nella democrazia, nella giustizia e nel diritto opposti alla prevaricazione.

Allo scadere dell’ultimatum, alle 11, gli Hunters non erano ancora pronti per l’attacco. Pinochet ordinò quindi ai carri armati di cannoneggiare la facciata principale del palazzo presidenziale. L’attacco aereo iniziò solo alle 11.50: due aerei sottoposero la Moneda a quattro ondate di bombardamenti da ogni lato, mentre la battaglia infuriava in via Tommaso Moro, intorno all’abitazione di Allende, una delle principali sacche di resistenza. Subito dopo la Moneda fu presa d’assalto da diverse direzioni. L’attacco finale fu lanciato dal generale Palacios alle 14: Allende, prima di essere fatto prigioniero, si uccise con il mitra che gli era stato regalato da Fidel Castro in persona. La versione del suicidio è sempre stata negata e smentita dalla sinistra cilena e da numerose personalità a partire da Gabriel Garcia Marquez ma le evidenze a disposizione sembrano invece confermare tutte il suicidio. Alle 14.38 il generale Palacios informò i capi della cospirazione, Pinochet e Leigh: “Missione compiuta, Moneda presa, presidente morto”.

Già nel pomeriggio dell’11 settembre gli stadi cileni iniziarono a riempirsi di militanti della sinistra reclusi, torturati, uccisi, fatti scomparire. Un decreto della giunta del 13 settembre mise fuori legge tutti i partiti che avevano sostenuto la coalizione di governo, Unitad Popular. Una “carovana della morte” guidata dal colonnello Stark fu incaricata di percorrere il Paese per uccidere senza processo decine di oppositori. Il numero delle vittime e dei desaparecidos è incerto: secondo alcune stime sarebbero intorno ai 5mila, secondo altre la strage sarebbe stata più sanguinosa: 15mila morti e 2mila scomparsi. Di certo le torture furono all’ordine del giorno. Il rapporto della Commissione cilena sulle prigioni politiche e le torture ha individuato 1132 centri di detenzione nei quali la tortura veniva sistematicamente praticata. La notte cilena sarebbe durata 17 anni. La brutale violenza di Pinochet, destinato ad accentrare nelle sue mani il potere a scapito degli altri tre generali golpisti, mise fine a un esperimento forse unico al mondo: il colpo fu micidiale per la sinistra non solo dell’America latina ma di tutto il mondo.

Il socialista marxista Salvador Allende si era presentato alle elezioni presidenziali nel 1952, 1958 e 1964, uscendo sempre sconfitto. Nelle elezioni del 3 settembre 1970 aveva ottenuto, come candidato della coalizione composta da comunisti e socialisti Unitad Popular, appoggiata dall’esterno del gruppo di estrema sinistra Mir, il 36,3% dei voti, superando di stretta misura i voti del candidato della destra e con scarto più ampio, quello democristiano. La Costituzione cilena prevedeva che, ove nessuno raggiungesse il 50%, a scegliere tra i due candidati più votati fosse il Congresso. Gli Usa fecero il possibile e anche di più per spingere i democratici cristiani a non appoggiare Allende ma senza riuscirci. Il candidato di Unitad Popular si insediò alla Moneda il 3 novembre 1970.

Quello di Allende è ancora oggi il tentativo più compiuto di coniugare socialismo e democrazia e di arrivare a una trasformazione radicale della società attraverso riforme realmente strutturali ma nel rispetto delle regole costituzionali. Il suo era un programma rivoluzionario: ripristino della sovranità nazionale contro il controllo delle risorse naturali, a partire dal rame, da parte dei grandi gruppi capitalisti, nazionalizzazioni a distesa, aumenti salariali, riforma agraria, incremento della spesa pubblica, sospensione del pagamento del debito. Per l’oligarchia cilena e per il capitalismo statunitense Allende diventò il nemico da battere a ogni costo e con qualsiasi mezzo. La Cia investì fiumi di dollari per una politica di destabilizzazione basata sugli scioperi contro il governo di alcune grandi categorie, come i camionisti. Il prezzo del rame fu fatto crollare, con l’obiettivo di mettere in ginocchio l’economia cilena e costringere Allende ad andarsene.

All’inizio del 1973 il governo aveva nazionalizzato il 90% delle miniere, l’85% delle banche, l’84% delle imprese edili, l’80% delle grandi industrie ma l’inflazione aveva raggiunto il 200%, le esportazioni erano crollate, i trasportatori paralizzavano il Paese. Il Congresso tentò di sfiduciare il governo. L’opposizione ottenne 81 voti contro i 47 del governo, ma senza raggiungere i due terzi necessari per imporre le dimissioni. Il 29 giugno ‘73 ci fu un primo tentativo di golpe, con i carri armati del colonnello Souper che circondarono la Moneda. L’esercito al comando del generale Prats e di Pinochet fermò il golpista ma in agosto Prats fu costretto alle dimissioni da una campagna di delegittimazione. Proprio lui, destinato a essere ucciso dai servizi segreti cileni l’anno seguente a Washington, indicò come suo successore il generale Pinochet.

Nelle stesse ore, il 22 agosto, la Corte suprema e la Camera si appellarono ai militari invocando il loro intervento per “far rispettare l’ordine costituzionale”. Il 4 settembre, anniversario della vittoria alle elezioni, 750mila lavoratori sfilarono a Santiago in difesa del governo che, nonostante la crisi, aveva migliorato di 7 punti percentuali le proprie posizioni nelle elezioni per il Congresso del marzo precedente. Forte del consenso popolare il presidente mirava a sbloccare la situazione con un referendum alla fine di settembre. La sua proposta servì solo ad accelerare il complotto dei militari, sostenuto da Washington. L’11 settembre calò il sipario.